PARTE SECONDA
STORIA E CRONACA
SEZIONE PRIMA
DOCUMENTI E TESTIMONIANZE ESTRANEE ALL’ORDINE
(1526-1632)
II
EPISTOLARIO «CAPPUCCINO» DI VITTORIA COLONNA
(1535 – 1542)
INTRODUZIONE
TESTI E NOTE
a cura di
CONSTANZO CARGNONI
I FRATI CAPPUCCINI. Documenti e Testimonianze del Primo Secolo. A cura di COSTANZO CARGNONI. Roma 1982, II, 183-191.
INTRODUZIONE
L’epistolario «cappuccino» della marchesa di Pescara Vittoria Colonna († 1547), considerata dai frati benefattrice e, con Caterina Cybo, efficacissima «madre» della riforma dell’Ordine,[1] comprende in questa raccolta 28 lettere, alcune altrettanti piccoli trattati; 21 spedite, di cui cinque ad Ambrogio Recalcati, quattro al card. E. Gonzaga, tre a Bernardino Ochino, due a Paolo III, due al card. G. Contarini e le rimanenti rispettivamente alle autorità di Monte S. Giovanni Campano, a Eleonora Gonzaga, a Ercole II d’Este e ai cardinali A. Trivulzio e M. Cervini; e 7 ricevute, di cui una firmata dal Giberti, un’altra da C. Gualteruzzi, quattro da Pietro Bembo e un’ultima dall’Ochino.
Cronologicamente abbracciano solo sette anni, dal 1535 al 1542; anni, però, d’importanza eccezionale per la storia dei frati cappuccini, durante i quali si giocò la sorte dell’Ordine. Quattro lettere risalgono al 1535, sei al 1536, cinque sono del 1537, quattro del 1538; tre del 1539, una del 1540 e due del 1542. Si noti come il periodo esplosivo, per cosí dire, dell’epistolario, sono gli anni 1535-38; poi si verifica un forte decremento e questo fatto è in stretta dipendenza con la parabola di Bernardino Ochino che raggiunge il massimo nel 1536 e s’incurva e s’eclissa nel 1542.
Tutto l’epistolario si potrebbe sintetizzare in tre principali temi:
1) piena approvazione, difesa e sostegno della «santa riforma» cappuccina senza quelle barriere che impedivano l’ingresso agli osservanti e agli altri proseliti e bloccavano la sua espansione; 2) difesa della legittima autorità contro l’ambizioso procedere di Ludovico da Fossombrone; 3) ammirazione e rapporti spirituali con Bernardino Ochino.
Chi rompe il ghiaccio è il vescovo di Verona G. M. Giberti che nel 1535 risponde a V. Colonna (doc. 14), approvando il suo impegno a favore dei cappuccini e ripromettendosi di fare altrettanto, per cooperare alla vera riforma della Chiesa, perché in essi egli vedeva risplendere «la vera, semplice e non fucata religione».
La marchesa però aveva coinvolto nell’amore ai cappuccini, sempre nello stesso anno 1535, anche altre personalità ecclesiastiche, e prima di tutto il cardinal veneziano G. Contarini (doc. 15,1), uno dei membri della commissione creata da Paolo III per risolvere la questione dei frati; e poi il potente cardinal di Mantova E. Gonzaga (doc. 17), esortandolo ad aiutare «questi padri reverendi della santa e vera vita de san Francesco», nonostante l’avversione del generale degli osservanti F. Quiñones che aveva sobillato contro la «setta» dei cappuccini lo stesso imperatore Carlo V. Si tratta di notizie frammentarie, mezze notizie che fanno trasparire tutte le nascoste trappole dei numerosi nemici della riforma cappuccina.
La lettera al cardinal di Mantova era stata spedita il 29 dicembre da Genazzano. Dallo stesso luogo dieci giorni prima era partita un’altra lettera per sollecitare la Comunità di Monte S. Giovanni Campano a finire la costruzione del convento dei cappuccini (doc. 16), cosicché potesse poi gloriarsi nel Signore di aver dato inizio a «quel bene che tucto il mondo insieme non n’ha facto tanto».
Ma l’anno piú battagliero e piú fecondo di interventi della marchesa a favore dei cappuccini è il 1536. Ben sei lettere, due delle quali sono piccoli trattati apologetici, si succedono a ritmo serrato a favore dei «servi del Signore», altra definizione, fra le numerose, con le quali vengono definiti i cappuccini. Scrive una lunga lettera a Paolo III nei primi giorni di febbraio 1536 (doc. 18), informandolo della «verità» a riguardo dei cappuccini e sciogliendo, una dopo l’al-tra, con logica inesorabile, gli argomenti capziosi degli avversari. Lo stesso fa con un’altro prolisso scritto in forma di lettera apologetica al card. G. Contarini (doc. 21), redatto, pare, negli ultimi mesi del 1536, dove specifica ancor meglio certi risvolti delle accuse mosse contro la riforma cappuccina. Nel frattempo scrisse altre tre lettere ad A. Recalcati, in febbraio e in maggio e verso la fine del 1536, intervenendo soprattutto nel caso delicato e difficile di fr. Ludovico Tenaglia (doc. 19,1-2 e 15,2), e su questo argomento si dilungò anche in un’altra lettera scritta il 27 giugno alla duchessa di Urbino Eleonora
Gonzaga (doc. 20).
Il nerbo, tuttavia, dei suoi pensieri a favore della riforma sono raccolti, come è ovvio, nelle due lettere-trattati a Paolo III e al card. Contarini, che restano, anche oggi, al di là della polemica, una «carismatica» presentazione dello spirito cappuccino, con ragionamenti evangelicamente radicali, spiritualmente convincenti ed energicamente vittoriosi. Sono due testi che devono essere letti insieme: uno spiega l’altro e lo completa; i diversi argomenti si chiariscono e si precisano con particolari piú focalizzati ora nell’uno, ora nell’altro scritto. Ma si avverte che si tratta dello stesso stato d’animo, dello medesimo focolaio di riflessioni.
Il tema dell’obbedienza e quello dell’abito si ripetono nei due scritti, come pure la ripetuta proibizione di entrare nella nuova riforma. La risposta è sempre molto tagliente nella lettera a Paolo III, mentre in quella al card. Contarini si allarga su alcuni particolari storici che hanno causato questa proibizione. Al papa presenta una serie di sillogismi per assurdo, come a dire: «Non fare il bene perché causa scandalo a chi lo fa». Solo che lo scandalo è da parte di otto o dieci superiori soltanto, non dal corpo della famiglia degli osservanti, al quale in genere dispiace questo spiegamento di proibizioni giuridiche a furia di brevi papali. Perché, in effetti, l’argomento va a finire contro gli stessi osservanti, e qui sta, a suo giudizio (scrive la marchesa al card. Contarini), il vero motivo della battaglia. Essi hanno aperto la porta a ricevere quei cappuccini che vorranno ritornare tra gli osservanti, ma l’hanno sprangata per quest’ultimi che volessero passare alla riforma cappuccina. Ora (osserva Vittoria Colonna), in tre mesi sono rientrati al massimo una ventina, mentre sarebbero pronti a vestir l’abito col cappuccio ben 3.000 frati, secondo un computo allora fatto. Del resto non fecero già cosí gli stessi osservanti quando si separarono dai conventuali? Perché ora (si chiede) tanto accanimento e tanta invidia? Sembra proprio che la lotta furoreggi tra la legge di Mosé e la grazia di Cristo, tra la carità e l’ambizione, l’umiltà e il desiderio di primeggiare. Perché, in fondo, (afferma spietatamente la marchesa), è solo questione di primato nell’Ordine da parte di coloro che governano.
Scrivendo al Contarini insinua altri elementi interessanti, come una mini-storia delle riforme francescane, avvenute due volte, una «mediocremente» e sarebbe l’Osservanza, l’altra «perfettamente» ed è la riforma cappuccina, perché qui si osserva «il santo abito» di san Francesco, « la sua evangelica Regola sine glosa», e viene «escluso ogni presunzione di fondatore e di frasche». Quest’ultima frase è una diretta risposta all’obiezione che i cappuccini non hanno fondatore santo, perché Matteo da Bascio, «santissimo uomo (dice V. Colonna) che cominciò questa riforma, il quale vive oggi e sta tra questi patri, e non curando di ambizione andava predicando quando si fece la bolla», è rientrato fra gli osservanti per continuare la sua predicazione itinerante. La risposta è categorica: «San Francesco è il fondatore». I cappuccini non hanno altra guida, né camminano «con altro lume»: questa è la grande forza, il profondo significato della riforma che ha preso come norma la Regola, gli scritti e la vita del Poverello.
Nell’esaltar la riforma cappuccina, V. Colonna manifesta anche il suo temperamento poetico. Si potrebbero raccogliere tutte le espressioni che dipingono «la perfectissima vita de septecento frati», che sono «veri mendicanti», portano avanti una «santa riforma» che è «opera di Cristo» perché è «aumentata in ordine, in spirito, in numero di perfectissimi e doctissimi patri» con la venuta di grandi personalità e con le costituzioni del 1536, e dà «infiniti boni esempli» con «l’abito del glorioso padre san Francesco», con «umili, docte e ferventi predicazioni». I suoi seguaci «non domandano grandezze», ma «si sottomettono a tutto il mondo», rinunciando ai documenti che rilassano «la purità della Regola e mera intenzione di san Francesco» e sono davvero il «nerbo de la fede di Cristo, del servizio di sua santità e de la Chiesa».
Questa entusiasmante presentazione della vita cappuccina era, in V. Colonna, collegata all’amore che cresceva sempre piú in lei verso la predicazione, le idee e la vita di Bernardino Ochino. Infatti nella lettera a Eleonora Gonzaga (doc. 20); in cui giudica severamente il comportamento «superbo» di Ludovico da Fossombrone, esprime per Ochino un sentimento di compassione: «el povero fra Belardino» come vittima delle «insolenze» del Tenaglia. In realtà sarebbe da appurare se qui la marchesa non si faccia portavoce dell’Ochino che fu il piú intraprendente contro la linea di Ludovico da Fossombrone; oppure se non sia vera l’immagine che risulta di quest’ultimo, come sedizioso, sedotto dal card. Quiñones, «cervello balzano». Probabilmente è vero l’uno e l’altro, ma piú l’influsso della linea di Bernardino Ochino, secondo l’ultima storiografia che ha cercato di riabilitare la figura «patetica» del Tenaglia.[2] La marchesa, ad ogni modo, dopo le lettere al Recalcati e alla duchessa di Urbino, non ritorna piú sul Tenaglia, ma parla solo di Bernardino Ochino, che ormai prende il sopravvento su ogni altro argomento.
Le lettere dal 1537 in poi, ad eccezione di quelle scritte nel 1538 a Paolo III e al card. A. Trivulzio, seguono in pratica gli itinerari apostolici del grande predicatore e vengono coinvolte con sofferta attenzione nelle preoccupazioni, accuse e tragica fine del loro eroe. Sembra quasi che tutto l’ardore femminilmente appassionato che la marchesa ha avuto nel difendere la riforma cappuccina, ora lo trasfonda nell’esaltare e difendere la persona dell’Ochino, che in quegli anni, al vertice dell’Ordine come vicario generale, e «superstar» dei predicatori in Italia, poteva rappresentare agli occhi del grande pubblico, ma anche delle élites colte, l’espressione piú significativa e la sintesi piú feconda ed efficace del francescanesimo rinnovato dei cappuccini.
Ma questo è vero solo in parte. V. Colonna interviene ancora, in un passaggio delicato e pericolosissimo, a difendere, come aveva fatto precedentemente, i suoi «poveri minimi» cappuccini. Lo fa col solito stile a grandi contrasti, nervoso, quasi espressionistico, scrivendo il 16 settembre 1538 da Lucca a Paolo III (doc. 25), dopo due anni di silenzio, con libertà evangelica che quasi fa pensare a santa Caterina da Siena: dice chiaramente che se il papa vuole la riforma della Chiesa, non può distruggere coloro che già vivono e realizzano questa riforma. E si appella anche «al pover fra Belardino» per valorizzare lo spirito di obbedienza dei cappuccini, i quali vogliono solo in tutto dipendere dal papa.
E lo stesso ripete, con tono piú calmo, ma sempre lucido, il 3 ottobre dello stesso anno, al card. A. Trivulzio (doc. 26), perché anch’egli, che ha grande prestigio e autorità nella curia romana, voglia continuare a difendere i cappuccini da ogni tentativo o segreto progetto di riagganciarli alla giurisdizione degli osservanti.
Quest’ultimo intervento in difesa dei cappuccini come riforma autonoma si perde fra le lettere che in quegli anni scrisse in difesa dell’Ochino. Da Monte S. Giovanni il 22 aprile 1537 si era rivolta al card. Gonzaga (doc. 22,1), raccomandandogli la causa di Bernardino Ochino accusato di predicare eresie, mentre non era vero dal momento che veniva richiesto da molte città e lui non voleva predicare se non con l’obbedienza del papa; e applica a Ochino un pensiero che già aveva usato con Paolo III per difendere la riforma cappuccina, cresciuta come un «miracolo», ma i farisei accusano che è stato fatto in giorno di sabato! Allo stesso modo, mentre nella predicazione di Ochino «el potente spirito de Cristo se fa piú vivo», i nuovi farisei ricorrono alle calunnie! La marchesa cerca di nascondere il suo affetto verso la persona di Ochino, dicendo che lo fa «per il fructo de tante anime» altrimenti messo a repentaglio.
Da Ferrara il 12 giugno riscrisse al cardinale di Mantova (doc. 22,2) per liberarlo da ogni motivo di dubbio nel decidersi a difendere il cappuccino, dal momento che l’Ochino era stato a Roma e vi era stato accolto con grande amore dal papa e dai cardinali. Che poi Ochino fosse richiesto da molti, dal vescovo di Verona, dal viceré di Sicilia, da Firenze, lo dimostrava con una lettera di C. Gualteruzzi ricevuta otto giorni prima e allegata come prova (doc. 22,3).
In autunno inoltrato, sempre da Ferrara, la marchesa raggiunse il segretario personale di Paolo III con due lettere, una del’8 novembre (doc: 23,1) e l’altra del 3 dicembre (doc. 23,2). È tutta preoccupata degli impegni di predicazione dell’Ochino, in modo che alla fine riuscirà ad ascoltarlo nel periodo dell’avvento a Ferrara. Ormai era attirata come una calamita da questa sua predicazione, cosí che verso la fine di febbraio 1538 lasciò Ferrara ed ebbe la gioia, dopo un po’ di peripezie di viaggi, di riascoltarlo a Pisa e poi a Firenze, come scrisse da Pisa il 26 marzo 1538 al duca di Ferrara Ercole II d’Este (doc. 24).
Le accuse contro Ochino sembravano assopite. Egli predicava piu che mai, dappertutto «adorato», come diceva V. Colonna al duca. Su questa ammirata predicazione di Ochino abbiamo riportato quattro lettere di Pietro Bembo alla marchesa, scritte da Venezia nel giro di un anno, dal 6 aprile 1538 al 4 aprile 1539 (doc. 27,1-4), durante il quale il Bembo fu poi creato cardinale da Paolo III. È un’esaltazione di Ochino quasi in gara con l’amore di V. Colonna che diventa il motivo che lo giustifica.
Di taglio diverso e ben piú strumentale è, invece, l’ammirazione espressa, in tre brani di lettere qui riportate (doc. 31,1-3), dalla terribile penna di Pietro Aretino. Scritte dalla città di Venezia all’agostiniano Andrea Centurione da Volterra il 20 luglio 1538, al letterato Giustiniano Nelli il 20 marzo 1539 e allo stesso Paolo III il 21 aprile 1539, il lettore può restar colpito dalla descrizione tipica che l’Aretino fa del modo «nuovo» di predicare dell’Ochino; ma forse non avverte che lo fa solo per seguire la moda e sfruttarla ai suoi scopi venali con ipocrita unzione letteraria a lui caratteristica.
Si giunge cosí all’inizio del 1540. L’Ochino è sempre il predicatore piú acclamato. Una letterina di V. Colonna al card. Gonzaga, del 16 gennaio (doc. 22,4), ragguaglia il porporato che il cappuccino era passato da Roma diretto a Napoli per predicarvi la quaresima. Incontrandosi con la marchesa, egli l’aveva ringraziata per la protezione ricevuta dal card. di Mantova. È questa, nella nostra raccolta, l’ultima lettera scritta da V. Colonna in cui parla con ammirazione di Ochino. Dal 1540 al 1542 l’epistolario tace.
Chi rompe il silenzio questa volta è lo stesso Ochino. Sorvoliamo due lettere non datate, scritte dalla marchesa senz’altro all’Ochino (al dire del Simoncelli che avvalora in pieno l’ipotesi degli editori del carteggio, Ferrero e Müller), probabilmente entro gli anni 1540-1541, e che riportano riflessioni a modo di meditazione sul Vangelo dell’adultera, come risonanza della predicazione del suo «padre spirituale» (doc. 28,1-2). In questo contesto sarebbe da porsi, secondo il Simoncelli, anche il Pianto della Marchesa di Pescara sopra la passione di Cristo (doc. 28,3), pure originalmente indirizzato in forma di lettera a Bernardino Ochino. È «una sofferta e lirica meditazione interiore in cui l’autrice s’immedesima nella parte della Madonna durante la passione di Cristo e la deposizione dalla Croce».[3]
La marchesa, immersa in queste meditazioni evangeliche; rimase senz’altro sconvolta quando ricevette la lettera del 22 agosto 1542 dal suo idolatrato «maestro» che le notificava la sua irrinunciabile decisione di lasciare l’Italia e la fede cattolica romana (doc. 29).
È l’unica lettera superstite dell’Ochino a lei, in cui si nota già un certo distacco dei due: V. Colonna non gli scriveva da oltre un mese, e l’Ochino da vario tempo non la interpellava, talché prese le sue disperate decisioni senza per nulla chiederle un suo parere. Ma la devota marchesa, frequentando il circolo di Viterbo, andava sempre piú legandosi al card. inglese Reginaldo Pole, che, dopo la fuga di Ochino, ne prenderà il posto di direttore spirituale.[4] Ella, per ordine del suo nuovo padre spirituale, non rispose alla lettera di Ochino, che, per altro, le deve essere arrivata tardi, se corrisponde a quella ricevuta a Viterbo il 4 dicembre 1542 con un libretto stampato delle prediche ochiniane; ma tutto consegnò al card. Marcello. Cervini, futuro papa Marcello II (doc. 30), postillando un severo giudizio nei confronti del suo antico «idolo» ora infranto, respingendo le sue giustificazioni per essere fuggito a Ginevra: uscendo dall’«Arca che salva», cioè dalla Chiesa cattolica (ribatteva la marchesa), non avrebbe potuto salvarsi, né tanto meno salvare gli altri.
Quest’ultimo argomento viene sviluppato con grande destrezza letteraria e ricchezza di argomenti in una lunga lettera del vescovo Claudio Tolomei ad Ochino, suo grande amico e concittadino, in data da Roma 20 ottobre 1542 (doc. 34). A questa lettera abbiamo aggiunto un’altra lettera scritta da G. M. Giberti al vicario provinciale dei cappuccini milanesi, p. Francesco di Calabria, in data 26 settembre dello stesso anno, riguardante sempre la fuga di Ochino (doc. 33), e interessante perché solleva in parte il velo sull’atteggiamento assunto da alcuni semplici cappuccini che speravano in un ravvedimento del loro ex vicario generale. E questa tradizione è rimasta lungamente nell’Ordine che allora innalzò, dietro invito di Bernardino d’Asti, incessanti preghiere per la conversione di Ochino, fino al punto che il Boverio nei suoi Annales (e questa documentazione è rimasta abbondante in AGO)[5] giungerà a convincersi, portavoce della maggior parte dei frati, che dopo lunghe peregrinazioni nei paesi protestanti, l’Ochino si sarebbe convertito e per la fede ritrovata avrebbe subito il martirio.[6] Commovente fede, che però non trova nessuna giustificazione storica!
Il motivo per cui abbiamo insistito sulla figura di Bernardino Ochino, anche nella sua tragedia, deriva dal fatto che egli rappresenta un momento forte della storia e della vita della giovane riforma cappuccina. Con lui essa aveva trovato in fretta e troppo facilmente il suo successo, la sua gloria, la sua espansione. I cappuccini erano diventati noti in tutta Italia soprattutto per la fama della predicazione ochiniana. Ma dovevano pagar caro questa affrettata celebrità e rapido proselitismo, fino al punto da rischiare la stessa loro sopravvivenza.
- «Non fu madre già mai cosí gelosa de’ suoi figli, come era questa signora marchesa de’ frati capuccini, talché ella li chiamava suoi figliuoli» (MHOC I, 400). ↑
- Cf. C. Urbanelli, Storia I/1, 366-374. ↑
- Cf. Paolo Simoncelli, Evangelismo italiano del Cinquecento. Questione religiosa e nicodemismo politico, Roma 1979, 209-225, specie 214s. ↑
- Cf. B. Nicolini, Sulla religiosità di V. Colonna, in id., Ideali e passioni dell’Italia religiosa del Cinquecento, Bologna 1962, 27-44. ↑
- AGO, PC 8. ↑
- Cf. AC I, 350-355. ↑