MODUS VIVENDI COSTUMANZE DI PROVINCIA FORMULARI CERIMONIALI

PARTE PRIMA

ISPIRAZIONE E ISTITUZIONE

SEZIONE QUARTA

MODUS VIVENDI COSTUMANZE DI PROVINCIA FORMULARI CERIMONIALI
(1536-1641)

SGUARDO D’INSIEME
di
COSTANZO CARGNONI

I FRATI CAPPUCCINI. Documenti e Testimonianze del Primo Secolo. A cura di COSTANZO CARGNONI. Roma 1982, 1167-1171.

Dopo un periodo di incubazione profonda, legata a diversi fattori storici e spirituali, l’ispirazione della riforma cappuccina andò concretizzandosi a poco a poco, per influsso di vicissitudini culturali e ambientali, in un sistema di vita, in un modus vivendi che richiese immediatamente una sua autonomia, una sua espressione originale, una sua diversità.

La prima esperienza vitale, sospinta e illuminata dal carisma spirituale della riforma, venne revisionata da un primo tentativo di riflessione e di programmazione, tradotto presto nell’abbozzo legislativo di Albacina che già prospetta le connotazioni preferenziali del modus vivendi cappuccino.[1] Ma sono indicazioni scarne, veloci, dettate da un radicalismo evangelico e francescano senza sfumature intermedie, in una totalità di dedizione all’ideale che splende nell’anima.

Le esperienze si arricchiscono, si moltiplicano e si intrecciano: i primi pionieri della riforma immergono questo idealismo prevalentemente eremitico nel discernimento spirituale e apostolico, comunitario ed ecclesiale. Questo è stato possibile per l’intervento eccezionale di eminenti francescani provenienti soprattutto da quel gruppo di recolletti o riformati che allora facevano sussultare il potente Ordine degli osservanti. Le costituzioni basilari di Roma-S. Eufemia del 1536 ne furono il, frutto piú cospicuo e duraturo. In tal modo le linee maestre della vita cappuccina erano tracciate per sempre e si proiettavano verso un sicuro avvenire.[2]

In questa sezione documentaria intendiamo accostare la ricchezza e varietà di questa concretizzazione e standardizzazione della vita cappuccina nel primo secolo della sua storia. E perché chi ha scoperto un tesoro, lo difende con cura, incominciamo, quasi come una introduzione, con una serie di documenti e di testi che, dal 1536 al 1628 esprimono in toni diversi, legati a situazioni diverse, un sistema di difesa, di resistenza e di promozione della vita cappuccina. Cosí abbiamo l’opportunità di ricuperare alcuni importanti «memoriali» che cercano di salvaguardare l’afflusso di osservanti alla riforma o l’iconografia del cappuccino, la sua fisionomia esterna come segno di questa riforma; inoltre possiamo rileggere due testi caratteristici che, sul modus vivendi tracciato dalle costituzioni dell’Ordine, si sforzano di esaltare l’autenticità e verità della filiazione francescana della riforma o i motivi del suo successo nella storia del primo secolo (I. Difesa e apologia del «modus vivendi» cappuccino, docc. 1-8).

I primi pionieri della riforma portarono la nuova esperienza francescana nelle varie regioni italiane. Cosí le province lentamente assunsero una propria caratteristica «locale», pur nell’uniformità dello spirito. Si crearono metodologie peculiari. La riflessione e sistematizzazione di queste vivaci esperienze locali vennero realizzate, però, nel periodo in cui l’Ordine stava riflettendo su se stesso, sulla sua storia, le sue caratteristiche, la sua identità, ossia piuttosto verso la fine del Cinquecento e inizio Seicento, a partire da dopo il concilio di Trento.

Le cronache generali dell’Ordine[3] presupposero e richiesero e quindi portarono alla formazione di cronache provinciali. Il tipo di cappuccino si specificò nelle diverse località italiane, dal Nord al Sud: apparve il tipo marchigiano e calabrese, il tipo lombardo-veneto, il tipo siciliano e altre inculturazioni regionali che meriterebbero un approfondito studio. Tutto questo trovò il suo sbocco naturale nelle cosiddette «costumanze o tradizioni di provincia». In questo senso abbiamo raggruppato una serie di testimonianze raccolte da vari manoscritti o stampati della fine del ‘500 fin verso il 1626. Esse fanno scoprire le linee pedagogiche adottate dall’Ordine. Perciò è dato largo spazio al periodo del noviziato che è la culla permanente della vita cappuccina o come il suo battesimo, con la sua morte e resurrezione, ossia con le sue pratiche radicali di penitenze esteriori e interiori per distruggere l’uomo vecchio e sviluppare progressivamente la vita spirituale ascetica e mistica, fino alla nascita dell’uomo nuovo, creato nella giustizia e santità di Dio.

Appaiono cosí, in ordine, il modo di vivere del cappuccino marchigiano che ha molto influito sullo stile della riforma, le pratiche di noviziato e di formazione dei giovani nella tradizione delle province lombardo-venete; pratiche trasportate anche in Boemia secondo il metodo austero di Mattia Bellintani da Salò. Proponiamo anche un vero cerimoniale, ancora inedito, scritto da Bartolomeo Vecchi da Bologna per l’anno di noviziato. È un po’ il vademecum del maestro dei novizi e, anche se legato alla tradizione della provincia di Bologna, raccoglie la precedente esperienza di noviziato cappuccino, prima tramandata oralmente, valida sostanzialmente anche per le altre province, e la fissa in un trattato organico intitolato: Modo d’incamminare i novizi. Qui ritroviamo le motivazioni spirituali di tutti i gesti, gli esercizi e le pratiche della vita cappuccina del passato (II. Tradizioni e pratiche di province e di noviziato, doc. 1-8).

Anche i «libretti cappuccini della Regola» seguono un indirizzo formativo legato allo studio della Regola e a pratiche di noviziato e studentato, tradotte in regolette e brevi testi facilmente memorizzabili. Da questi abbiamo pure estratto diverse pagine significative (III. Consuetudini ascetiche e devozionali negli antichi libretti della Regola, docc. 1-22).

Un’altra novità è rappresentata da una raccolta sistematica di documenti ufficiali che riflettono l’attività delle segreterie generali e provinciali dell’Ordine, ossia i molteplici formulari di obbedienze, di lettere dimissoriali, di nomine e uffici, raccomandazioni e affiliazioni dall’Ordine. È una suggestiva visione, in tutta la sua vasta gamma, della vita cappuccina come immersa nell’obbedienza: dai giovani ai vecchi, dai sani ai malati, dai dotti ai semplici, dai superiori ai sudditi, dai sacerdoti predicatori ai semplici sacerdoti, dai chierici studenti ai fratelli laici; e la grazia di questa vita avvolge anche i benefattori che vengono spiritualmente affiliati all’Ordine e raccomandati nei loro viaggi o scelti per compiti gravosi come le fabbriche di conventi o il lanificio (IV. Vita cappuccina nei formulari di obbedienze, raccomandazioni e lettere di affiliazioni, docc. 1-115).

È significativo che colui che riuscí a ridurre in sintesi organica l’immenso materiale cronachistico raccolto nelle province dell’Ordine, secondo particolari criteri documentari,[4] cioè Zaccaria Boverio da Saluzzo, sia stato anche il primo a codificare e a stampare gli usi e le cerimonie dell’Ordine. Infatti dal 1626, dopo un secolo di esperienza di vita cappuccina, prendono il via questi cerimoniali in forma ufficiale e vengono stampati per evitare il pericolo che la ricchezza di questa esperienza vada dispersa, se ne perdano le tracce e soprattutto la memoria. Questa fioritura «cappuccina» di letteratura analitica sul comportamento liturgico e giuridico e sulle pratiche di vita conventuale a livello ascetico, religioso, penitenziale e fraterno, può trovare una sua giustificazione anche nel clima creatosi dopo il concilio di Trento e soprattutto nel metodo di applicazione dei decreti dello stesso concilio che ha avuto in san Carlo Borromeo il modello per eccellenza. Le prescrizioni di san Carlo, dettagliatissime e precise, sono probabilmente i prodromi dei cerimoniali cappuccini. Inoltre è lo stile dell’epoca, nell’esasperato diritto processuale sviluppatosi fortemente col metodo dell’inquisizione, applicato in parte anche al diritto penale dei religiosi, anche se ciò non significa che prima non esistesse perché ancora non si erano stampati simili regolamenti. Per questo motivo bisognerebbe andare adagio a tacciare di conventualizzazione e di monasticizzazione i cerimoniali antichi dell’Ordine.

Tuttavia, al di là di qualsiasi limite che questo tipo di letteratura può avere, particolarmente alla sensibilità dei moderni, è necessario rivisitare questa documentazione fiorita sull’esperienza del primo secolo cappuccino e quindi capace di trasmetterci molte espressioni originali della vita e del carisma dell’Ordine, inculturati in un quadro perfetto del terribile ed eroico quotidiano.

Riproponiamo cosí una rilettura di alcuni capitoli del De sacris ritibus del Boverio (Napoli 1626) che accompagnano il frate dal noviziato alla morte. A questo aggiungiamo una scelta di brani da un altro tipo di cerimoniale, piú semplice, spontaneo, immediato e ricco di unzione spirituale e di rapporti esistenziali. È un libretto di un autore cappuccino non italiano, Francesco di Chambéry, intitolato:

Regulares et religiosae patrum capuccinorum exercitationes (prima edizione: Lyon 1624), che riflette a meraviglia la mentalità inculturata dell’Ordine all’inizio del Seicento e descrive l’attività del cappuccino dentro e fuori convento lungo le 24 ore di ogni giornata (V. I primi cerimoniali e ‘modus vivendi’ stampati, docc. 1-2).

La conclusione, anche se in parte sorvola un po’ l’ambito cronologico, l’abbiamo lasciata a un grande interprete e protagonista della vita cappuccina, ma anche della diplomazia missionaria della Chiesa nel primo Seicento: Valeriano Magni da Milano. È una riflessione antica e moderna insieme, critica e costruttiva. Egli, da una parte, in un suo progetto inedito di riforma dell’Ordine, rilegge l’antica legislazione che ha guidato l’esperienza cappuccina del primo secolo e ne evidenzia i lati insufficienti, imprecisi e l’inattualità di certe «cerimonie» che non favoriscono tutta la ricchezza dello spirito missionario dell’Ordine; ma anche sottolinea il fervore miracoloso dei superiori maggiori, i quali, nonostante queste carenze legislative e di organizzazione, hanno saputo conservare la vita del Vangelo e della Regola con il loro zelo carismatico fra una moltitudine sempre piú massiccia di cappuccini. È in questa semplicità di organizzazione, in questa «dotta ignoranza» che è fiorita una santità di eccezione come norma e come paradosso. E Valeriano Magni in questo senso fa una apologia di tale santità presente in tutte le categorie di cappuccini e la «mostra» ai protestanti come «segno» della santità e quindi della verità della Chiesa cattolica. È l’argomento fondamentale della sua apologetica teologica (VI. Sguardo critico e apologetico retrospettivo di Valeriano Magni, docc. 1-3).

  1. Cf. C. Cargnoni, I primi lineamenti di una «scuola cappuccina di devozione», in IF 59 (1984) 111-140; tradotto anche in inglese nella nuova rivista: Greyfrias Review 1 (1987) 41-64: A Capuchin School of Devotion.
  2. Vedi sopra, alla sez. II: Primitiva legislazione cappuccina.
  3. Cf. parte II, sez. IV: Cronache cappuccine primitive.
  4. 4Cf. Antiquae monitiones datae pro compilatione chronicarum Ordinis, in AO 21 (1905) 313-317, 332-337 (riedite nella nostra raccolta: parte II, sez. IV, alla fine).