Le Ordinazioni di Albacina: Introduzione

PARTE PRIMA

ISPIRAZIONE E ISTITUZIONE

SEZIONE SECONDA

PRIMITIVA LEGISLAZIONE CAPPUCCINA (1529 – 1643)

I

LE ORDINAZIONI DI ALBACINA (1529)

INTRODUZIONE
di
FRANCESCO SAVERIO TOPPI

I FRATI CAPPUCCINI. Documenti e Testimonianze del Primo Secolo. A cura di COSTANZO CARGNONI. Roma 1982, 165-176.

Table of Contents

Note caratteristiche

Vita contemplativa

Vita povera e austera

Altri temi

Il lavoro manuale

Vita fraterna e opere di carità

Pochi mesi dopo l’approvazione pontificia, la riforma cappuccina contava già un buon numero di frati, sparsi in diversi luoghi delle Marche. Occorreva pertanto eleggere i superiori e redigere gli statuti.

Ludovico da Fossombrone, di comune accordo con i confratelli piú qualificati, indisse il «capitolo generale», che fu celebrato ad Albacina, nell’eremo di S. Maria dell’Acquarella, nell’aprile del 1529.

Furono eletti quattro definitori: Ludovico da Fossombrone, Matteo da Bascio, Angelo da S. Angelo in Vado e Paolo da Chioggia. Tra questi fu scelto per acclamazione come vicario generale Matteo da Bascio, nonostante la sua riluttanza. Ma fu soltanto per poco tempo, che presto si dimise e fu sostituito da Ludovico da Fossombrone.

Dopo le elezioni si passò a redigere gli statuti e furono incaricati a tal fine i quattro definitori. Secondo Mario Fabiani da Mercato Saraceno, li avrebbe stesi in latino Paolo da Chioggia, esperto nello stile curiale. Ma a leggere il testo nel suo dettato semplice e arcaico, impacciato e saltellante nello stile, tutto fa pensare che la redazione originale fu in volgare.

Si deve a Mattia Bellintani da Salò l’aver trasmesso nella sua Historia Capuccina[1] l’unica copia finora esistente di questi statuti. Pur ammettendo qualche ritocco del trascrittore, gli studiosi sono d’accordo nel riconoscere l’autenticità del testo.

Non è neppure il caso di rifarsi alla versione latina del Boverio che si allontana sensibilmente dalla immediatezza e trasparenza dell’originale. Tuttavia viene collazionata al testo per un utile confronto critico e filologico.[2]

Le ordinazioni di Albacina si presentano nel nome di Ludovico da Fossombrone che, come vicario generale, le promulgò, vi aggiunse alcuni elementi secondo le esigenze del governo e le adottò nel guidare la riforma fino al 1535.

Note caratteristiche

I primi cronisti cappuccini scrivono di queste ordinazioni con grande entusiasmo. Mario da Mercato Saraceno riferisce che radunati «in una capanna con tanta povertà e simplicità, orazione e spirito […] non è maraviglia se fecero ordini cosí giudiciosi, cosí ben pensati e cosí santi».[3]

Bernardino Croli da Colpetrazzo non esita ad affermare che sono «le prime ordinazioni tanto simplici e tanto belle e cosí bene ordinate che chiaramente si conobbe esser fatte dallo Spirito Santo».[4] E altrove le qualifica «più celesti che umane».[5]

L’ingenua esaltazione dei cronisti trova una giustifica in quell’atmosfera di fervore serafico che le pervade e che esprime l’impegno eroico di ritornare a san Francesco e alla osservanza integrale della Regola.

Gli estensori delle ordinazioni di Albacina provenivano dalla grande famiglia dell’Osservanza, in cui erano state convogliate le riforme precedenti, delle quali conoscevano da vicino le esperienze più consistenti e gli indirizzi più validi. In modo particolare avevano presenti gli statuti degli Scalzi di Spagna e quelli che il ministro generale, Francesco Quiñones, aveva promulgato per le case spagnole di ritiro nel 1523 e per quelle italiane nel 1526 durante la visita alle province. i Il proposito di riforma si concretizzava nel riprendere e adattare con discernimento le proposte riformistiche anteriori, senza pretendere «per questo istituire nuova Regola, né che si muti nuovo modo di vivere».[6]

A prima vista balza il carattere incompiuto e provvisorio del testo che manca di uno sviluppo organico e ordinato degli argomenti. Per tale aspetto, appunto, è più esatto qualificarle come «ordinazioni», anziché come «costituzioni».

Si tratta di una serie di prese di posizione per dichiarare l’intento e avviare l’indirizzo della riforma. L’obiettivo immediato è quello di eliminare gli abusi ricorrenti nella vita comunitaria e di sancire le norme ritenute, più urgenti per un ritorno all’osservanza integrale della

Regola.

La preghiera contemplativa da promuovere con fermezza e la povertà più stretta da instaurare ad ogni livello sono i pilastri su cui si attestano le ordinazioni di Albacina.

Vita contemplativa

La prima preoccupazione del legislatore è quella di garantire il primato della vita contemplativa e assicurarne l’esercizio con norme precise che occupano i primi dodici articoli.

La denominazione «frati minori della vita eremitica» è già tutto un programma, anche se questa era una clausola giuridica che qualificava i religiosi viventi fuori della comunità d’origine.

L’identità dei frati è data essenzialmente dall’essere «dedicati e chiamati ad assistere e stare innanzi al Signore nelli suoi servizi, specchio e luce del mondo e mezzo reduttivo ed esso nostro fine Dio benedetto».[7]

L’intento riformistico si volge quindi in primo luogo a realizzare questa identità, cambiando lo stile di vita comunitaria, infarcita di preghiere vocali e di «cerimonie», che soffocavano il rapporto personale, contemplativo con Dio.

L’ufficio divino va celebrato «devotamente, con le pause»,[8] il mattutino a mezzanotte e le altre ore canoniche all’ora competente, curando soprattutto l’interiorizzazione delle formule liturgiche. In coro non si reciti comunitariamente alcun ufficio votivo, eccetto quello della Madonna, né si ammetta altra pratica devota per non recare «molestia ad alcun frate che stesse in chiesa, ovvero in coro ad esser-citarsi in orazione secreta overo mentale. E questo si ordina acciò che i fratelli tutti insieme dicano più devotamente e con le debite pause l’officio di debito, commandato dalla Regola, e acciò che li fratelli abbiano piú tempo da essercitarsi in orazioni secrete e mentali, molto piú fruttuose che le vocali».[9]

Si sottolinei quest’ultima affermazione che dà come scontata la superiorità della preghiera mentale sulla vocale.

Per promuovere la dimensione contemplativa e la ritiratezza si proibisce di partecipare alle processioni e agli accompagnamenti funebri, «acciò che se ne stiamo nella nostra quiete».[10]

L’articolo sesto riprende la norma data da san Francesco nella Lettera a tutto l’Ordine: celebrare una sola messa al giorno nei nostri luoghi. È significativo che, invece di addurre la motivazione evangelica dell’amore fraterno, a cui si richiama il serafico padre, si apporta il dovere di salvaguardare la povertà e la solitudine: «e guardinsi gli prelati al tutto da questa cupidità di tirar li populi agli eremi e luoghi dove abitano con dir messe e offici, acciò li populi portino elemosine e altre cose».[11]

L’interesse per questi valori è predominante ed il legislatore per assicurarne l’osservanza ipotizza un caso, abbozzando una scena con un candore quasi da Fioretti: «il caso è questo: che vogliamo e ordiniamo che non si ricevano messe in qualunque modo. Ma se alcuno dirà:

– Frati, ditemi una messa o più -, se gli risponda devotamente e discretamente, dicendo: – Noi pregaremo Dio per voi nelle nostre messe -. E si potrà ponere ancora una colletta in particolare per quella persona in sua satisfazzione. E al tutto si schivi ricevere elemosine alcune per messe o per orazione. Ma se daranno pane e vino, o altre cose pertinenti al vitto, si possano ricevere come elemosine date da chi non dimandasse orazione. E l’orazioni si facciano pur per semplice carità e per amor di Dio».[12]

Per proteggere la vita contemplativa si danno disposizioni sul silenzio (n. 9), sull’accoglienza dei fedeli alla porta e degli ospiti (n. 10), sulla lettura a mensa (n. 11), sulla ubicazione degli eremi a un miglio circa dagli agglomerati cittadini (n. 50).

L’occupazione principale del frate è la preghiera mentale, alla quale vanno assegnati dei tempi ben precisi per farla in comune e in privato. L’ideale è che si realizza una contemplazione incessante, che si identifica col fine per cui ci si consacra a Dio nella vita religiosa.[13]

La promozione della vita contemplativa attraverso la solitudine eremitica trova un sussidio pratico ed equilibrato nell’articolo 47, dove si ordina di approntare una o due celle «alquanto discoste dal luoco, in solitudine, acciò che, se alcuno avesse grazia dal Signore vivere con silenzio anacoriticamente e giudicato per li superiori esser idoneo, li sia data commodità con ogni carità che si ricerca».[14]

Si tratta qui ovviamente di favorire un carisma personale, inserendolo in una struttura comunitaria, «solitudine claustrale» che eviti i rischi di un eremitismo assoluto. Nell’avviare tale indirizzo s’incontrano e si integrano la prassi camaldolese e la regoletta di san Francesco per i romitori. Si respira pura spiritualità cristocentrica e francescana in questa deliziosa conclusione: «E li sia portato il suo povero vivere sino alla celluccia con silenzio e senza strepito, acciò che sia sempre unito col suo amoroso Gesù Cristo, sposo dell’anima sua».[15]

Da tale accentuazione della vita contemplativa ed eremitica non sarebbe esatto storicamente dedurre che i primi cappuccini ne facessero una scelta esclusiva. Essi si distinsero fin da principio dall’indirizzo degli Scalzi di Spagna e dalle case di ritiro del Quiñones per l’apertura all’attività apostolica, caratteristica degli osservanti d’Italia.

A dimostrarlo inconfutabilmente c’è l’articolo 24 che sottolinea e incoraggia la predicazione nei seguenti termini: «E si ordina ancora alli prelati che li predicatori, alli quali il Signore darà la grazia, non lascino star oziosi, ma li faccino essercitare la vigna del Signore in predicare, non solamente la quaresima, ma infra l’anno ancora nelle feste occorrenti e altri giorni espedienti».[16]

Nelle costituzioni successive si dovrà solo riprendere e sviluppare tale apertura, portandola ad applicazioni ulteriori; l’articolo 25, difatti, vi sarà il più citato delle ordinazioni di Albacina. E si aggiunga che la storia mostra i primi cappuccini dediti a predicare più di quanto potesse sembrare compatibile col tenore di vita prevalentemente eremitica. Si sa che Ludovico da Fossombrone effettivamente «non lasciava stare oziosi i predicatori», come aveva suggerito ai superiori con riflessi istintivamente autobiografici.

Vita povera e austera

Accanto alla contemplazione viene l’osservanza rigida della povertà. Questa componente specifica dello spirito francescano, seconda nella successione delle norme, sale al primo posto per il numero degli articoli che ne trattano insieme alla penitenza: 40 circa su 67.

Il motivo di fondo si richiama alla scelta evangelica di Francesco: «Io, piccolo frate Francesco, voglio seguire la vita e la povertà dell’altissimo Signore nostro Gesù Cristo e della sua santissima Madre, e perseverare in essa sino alla fine».[17]

Le ordinazioni di Albacina, difatti, riassumono tutte le prescrizioni date e le presentano nell’articolo conclusivo con la seguente esorta-zione: «E se ad alcuno delli frati paresse difficile queste cose predette, si ricordino del nostro Signore Gesù Cristo, che apparse e nacque al mondo povero e umile, e tutta la sua vita è stata a noi specchio ed essempio d’umiltà e povertà. E questo insegnò e mostrò esso al nostro padre san Francesco e lo ha insegnato a tutti li suoi servi, a dar ad intendere che il principio, mezzo e fine della nostra conversione sia tutta in compagnarlo alla croce santa».[18]

Il Cristo Gesù umile e povero da seguire, sull’esempio di Francesco, è l’ideale del frate minore cappuccino; essere insieme a lui sulla croce santa è «il principio, mezzo e fine della nostra conversione».

Il realismo austero della croce di Cristo porta ad una povertà e ad una penitenza effettive, ben lontane da eleganti enunciazioni teoriche e da fatui trionfalismi. Nelle ordinazioni di Albacina si evita ad ogni costo la comoda fictio iuris e si propone drasticamente una genuina, austera povertà di fatto. Le disposizioni sfilano attanaglianti senza dar minimo adito a deludere o a mistificare l’impegno assunto. Ne segnaliamo le piú rilevanti.

I luoghi presi devono restare sempre a tutti gli effetti in dominio dei proprietari, i frati siano pronti a lasciarli qualora a questi così piacesse, e vadano a far penitenza altrove con la benedizione del Signore, secondo il Testamento del serafico padre.[19]

In uno schizzo essenziale, duro, si ordina il materiale di costruzione dei luoghi: «vimini e luto, overo pietre e terra», e si delineano i miseri abitacoli primitivi: « e che le celle appaieno e siano picciole e povere, in modo che abbiano più tosto similitudine de sepolcri che di celle; e dette celle siano umili e basse».[20]

In una celletta che richiama la tomba non ci può essere posto per cose superflue e curiose: «I frati non tengano, né abbiano in cella figure curiose, ma alcuna poverina cosa, over qualche crocifisso, over qualch’altra semplice figura o semplice crociolina con li misteri della passione, come lancia, spongia, chiodi».[21]

Rimbalza qui l’accentuazione «passiocentrica» della povertà, che modella la figura del cappuccino, l’abito, il comportamento, gli strumenti di lavoro, la vita comunitaria con una sequenza martellante di disposizioni dettagliate, puntigliose.

Nel dettato scarno delle norme non mancano, però, richiami ai contenuti spirituali e talvolta mistici.

Così nello stabilire limiti rigorosi ai generi che si possono questuare, si riporta testualmente l’espressione della Regola che addita la dimensione escatologica della povertà.[22]

Ordinando di provvedere i panni solo secondo la necessità del momento, si eleva un pensiero di fiducia nella Provvidenza, «avendo sempre speranza nel Signore e fede».[23]

Constatando che già si osserva inviolabilmente la norma di non avere procuratori o sindaci apostolici, si avverte la gioia di precisare: «che non s’abbia altro procuratore e altri sindico che Cristo benedetto, e la nostra procuratrice e protettrice sia la Madonna Madre di Dio, e il nostro sustituto sia il nostro padre san Francesco».[24]

Comandando semplicità e povertà nei calici e altri arredi sacri, si giustifica la disposizione «considerando che il Signore non risguarda alle mani e alli vasi, ma alli nostri cuori, che siano puri e netti da ogni sozzura e pieni di affetti e desideri di povertà», e si prosegue riportando, ancora una volta nel testo latino, il passo della Regola sulla dimensione escatologica della povertà.[25]

In riferimento al precetto della Regola di non cavalcare, si stabilisce «che non si tenghino bestie, né muli, né cavalli, né asini per li luochi, e li prelati vadino a piedi. E se pure alcun fosse debile e fosse necessario il cavalcare, vada con un asinello, perché ci andò Cristo, nostro Signore, e il nostro padre san Francesco in sua estrema necessità».[26]

Il «flash» improvviso che mostra il Signore Gesù e il suo servo Francesco andare su un asinello, illumina in prospettiva la traiettoria su cui cammineranno i cappuccini: dietro al Cristo come Francesco.

Altri temi

Tenendo presente il carattere occasionale e asistematico delle ordinazioni di Albacina, sarebbe fuori luogo attenderne un quadro completo di vita francescana in tutti i suoi risvolti. Ci troviamo dinanzi a un documento che per sua natura doveva accentuare alcuni aspetti e lasciarne altri nell’ombra. Lo scopo unico, quasi esclusivo, era quello di selezionare e quindi di accogliere le proposte riformistiche ritenute più opportune.

In tale contesto non c’è da meravigliarsi se manca quella visione integrale del Cristo, non solo povero e crocifisso, ma anche risorto e glorioso, quale Francesco aveva delineato nei suoi scritti. L’impegno assunto di imboccare la via stretta della povertà e della penitenza portava inevitabilmente ad assolutizzare la spiritualità della croce.

Non potevano così trovarvi spazio la dimensione della letizia francescana, la larghezza dell’obbedienza caritativa, l’apertura evangelica alla misericordia della Lettera a un ministro. Si tenga presente che le ordinazioni di Albacina «si trovano sotto il nome di Fra Ludovico da Fossombrone»,[27] come si legge nel prologo e che quindi non potevano non risentire della sua tempra forte e dura.

Articoli che legiferano su cose particolari, come quello di non toccare cibo fuori dei pasti o frutti nell’orto (n. 57), che comminano la scomunica a chi passa da una provincia ad un’altra (n. 59), che sanciscono pene dure per chi prende cose usate da un altro religioso (n. 25), o entra in cella altrui (n. 38), vanno collocati nel proposito iniziale di eliminare gli abusi ricorrenti.

Nonostante i limiti e le carenze, un tono prettamente francescano pervade le ordinazioni. N’è indice espressivo l’uso frequente di termini cari a san Francesco, quali: «per carità e per amor di Dio… spirito e spirituale… devozione e devoto… puramente e semplicemente… luoghi o eremi…». L’austero legislatore non esita a ripetere più volte che si prostra dinanzi ai fratelli «con il bacio dei piedi», a raccomandare con tipiche espressioni francescane ai prelati che «essortino discretamente, timoratamente e divotamente, in quanto conosceranno che la necessità e discrezione ricerchi».[28]

Tale terminologia, che sgorga spontanea, manifesta una buona dimestichezza con gli scritti del serafico padre e una profonda sintonia col suo spirito. Il ritorno a san Francesco, perseguito con estrema passione ad ogni livello, ne faceva assumere naturalmente anche il linguaggio.

Il lavoro manuale

Sorprende invero l’assenza di un qualsiasi richiamo al lavoro manuale, tanto più che stava notoriamente molto a cuore al protagonista di Albacina, Ludovico da Fossombrone. Paolo Vitelleschi da Foligno riferisce che questi ritenne opportuno non trattarne per evitare le reazioni dei letterati e dei meno fervorosi.[29] Il punto della questione, però, vien fatto con esattezza ed equanimità da Bernardino da Colpetrazzo il quale, riferendosi alla discussione sorta su questo problema nel capitolo generale del 1535-36, illumina anche gli antefatti e ci trasmette il pensiero di coloro che orientarono la riforma in un settore così nevralgico come quello del lavoro manuale. È una pagina che va riportata testualmente per la sua importanza storica:

«Nacque nondimeno disparere intra li padri circa al voler vivere di laborizio. Il venerabile padre fra Bernardino d’Asti e fra Francesco di lesi, fra Giovanni da Fano, e molti altri padri illuminatissimi e santissimi uomini, non volseno che la cosa andasse inanti». «Basta assai – dicevano eglino – che tutta la congregazione viva di mendicità, e se ci è qualcuno che vogli vivere delle sue fatighe, gli lo concediamo, acciò, non pensando di fare una congregazione di santi religiosi che attendessino alle messe, ai santi offizi, alli studi della Scrittura e alla predicazione, facesseno una congregazione di bottegai; perché nelli essercizi meccanici è forza di intrigarsi assai con seculari; e sí ancor per continuar il lavorare è difficile a tenere il mezzo che non si precipitino tanto nel lavorare che del tutto non si estingua lo spirito, essen do che tutte le cose ci sono state ordinate da Iddio, acciocché ci servano allo spirito, sí come dice il nostro padre nella Regola – E per questo poseno nelle costituzioni che si avvertesse di non metter il loro fine nel lavorare, ma solo lavorar tanto che si scacci l’ozio

inimico dell’anima».[30]

Certamente Ludovico da Fossombrone era di parere diverso; egli voleva una povertà vissuta, piuttosto che nella veste di mendicanti, nell’esercizio di un lavoro manuale.

La scelta operata dalla riforma e codificata nella legislazione primitiva fu in consonanza col pensiero di san Francesco e con la tradizione dell’Ordine. Si deve a tale scalta se i cappuccini non si ridussero a una «congregazione di bottegai», ma divennero una forza nella missione evangelizzatrice della Chiesa.

Un cedimento parziale, tuttavia, alla tesi di Ludovico da Fossombrone si può ravvisare nell’atmosfera di sospetto che circonda lo studio. Leggiamo: «Niuno presuma ponere studio, eccetto leggere alcuna lezzione delle sacre Scritture e qualche libretto devoto e spirituale, che tirino all’amore di Cristo e ad abbracciar la sua croce».[31]

È chiaro che qui si esclude soltanto lo studio delle discipline profane, mentre si autorizza, almeno parzialmente, quello della Bibbia e di qualche altro libro spirituale. Si vuole affermare il primato assoluto dell’amore di Cristo e della sapienza della croce, ma – bisogna riconoscerlo – in termini angusti e unilaterali.

Le costituzioni del 1536 superarono lo scoglio con l’ammettere la necessità dello studio e insieme col puntualizzare la sua finalizzazione all’amore di Dio e al servizio dei fratelli.

Vita fraterna e opere di carità

Un’altra assenza nelle ordinazioni di Albacina è quella della fraternità e delle opere di assistenza caritativa ai poveri e ai sofferenti. È una prova ulteriore della incompletezza congenita ad un documento frammentario che raccoglie soltanto ciò che si ritiene urgente da ribadire.

La storia, d’altronde, attesta come i primi cappuccini erano un cuor solo e un’anima sola nei luoghetti in cui dimoravano e come si prodigavano eroicamente nell’assistenza degli appestati. Si potrebbe concludere quindi che non c’era bisogno di trattarne.

Non manca, tuttavia, qualche sprazzo che getta fasci di luce su una splendida realtà vissuta, ma nascosta nel silenzio degli eremi.

Tipica per le opere di assistenza è questa disposizione: «Ordiniamo che non si ricevano morti, eccetto qualche poverello che lo portassino sino al luoco, senza che li frati vi andassero e che altri non l’avessero voluto sepelire perché era povero e non li pagava. Ouesti tali, quando saranno portati alli luochi ed eremi dove noi stiamo, possino essere sepeliti, quia est opus pietatis et misericordiae; e non ricevino cosa alcuna, eccetto che preghino per carità e per amor di Dio per l’anima sua».[32]

Esemplare per la vita fraterna è la seguente esortazione: «Si ordina, come cosa congrua e religiosa, che quando accadi alli fratelli alcuna necessità di parlare o in tempo di silenzio o fuora in altra ora, parlino sempre summisse e con ogni piacevolezza e umiltà e con ogni riverenza l’uno all’altro, non usando atto alcuno di superbia o di maggioritade: così conviene alli devoti e umili servi del Crocifisso».[33]

Sia ha l’impressione, leggendo, di essere non tanto dinanzi ad una esortazione, quando dinanzi ad una descrizione di vita vissuta.

Sì, precisamente vita vissuta era quella che le ordinazioni di Albacina registravano e modellavano per i posteri. Siamo ovviamente ai primi albori; occorrerà ancora del tempo, non molto invero, e giungerà a maturazione il germe della riforma.

Le ordinazioni, quale autentico «seminario», saranno assorbite nelle costituzioni successive e le feconderanno con la vitalità recondita del seme che porta in sé la pianta futura.

  1. MHOC V, 158, 172. Il testo ms. apografo riprodotto anastaticamente in Constitutiones antiquae, 18-31, porta le note marginali non di p. Mattia Bellintani, ma di p. Giacomo da Salò.
  2. Sui problemi che la traduzione del Boverio pone alla storiografia cf. il puntuale studio di F. Elizondo, Las constituciones capuchinas de 1529. En el 450° aniversamo de su redacción en Albacia in Laurent. 20 (1979) 389-440
  3. МНОС I. 245.
  4. MHOC IV, 120
  5. MHOC II, 249.
  6. Alb. n. 1 (n. 82).
  7. Ibid..
  8. Ibid. n. 2 (n. 83).
  9. Ibid. n. 2 (n. 84).
  10. Ibid. n. 5 (n. 86).
  11. Ibid. n. 6 (n. 87).
  12. Ibid..
  13. Ibid. n. 8 (n. 89).
  14. Ibid. n. 47 (n. 128).
  15. Ibid..
  16. Ibid. n. 24 (n. 105).
  17. S. Francesco, Ultima volontà a S. Chiara (FF n. 140).
  18. Alb. n. 67 (n. 148).
  19. Ibid. n. 50 (n. 131).
  20. Ibid. n. 51 (n. 132).
  21. Ibid. n. 52 (n. 133).
  22. Ibid. n. 17 (n. 98).
  23. Ibid. n. 21 (n. 102).
  24. Ibid. n. 41 (n. 122).
  25. Ibid. n. 65 (n. 146).
  26. Ibid. n. 42 (n. 132).
  27. Cf. n. 81.
  28. Ibid. n. 14 (n. 95).
  29. MHOC VII, 198s.
  30. MHOC IV, 196s (n. 2710). 14
  31. Alb. n. 28 (n. 109).
  32. Ibid. n. 56 (n. 137).
  33. Ibid. n. 58 (n. 139).