Primi Commenti Cappuccini alla Regola Francescana: Introduzione

PARTE PRIMA

ISPIRAZIONE E ISTITUZIONE

SEZIONE SECONDA

PRIMI COMMENTI CAPPUCCINI ALL REGOLA FRANCESCANA
(Inizio sec. XVI – 1614)

INTRODUZIONE
di
COSTANZO CARGNONI

I FRATI CAPPUCCINI. Documenti e Testimonianze del Primo Secolo. A cura di COSTANZO CARGNONI. Roma 1982, 487-533.

Table of Contents

1. Il «Dialogo de la salute» emendato (doc. 2) e il «Breve discorso» (doc. 3) di Giovanni Pili da Fano (1536)

2. I sermoni dei ministri generali durante le visite

3. Commenti «cappuccini» anonimi e inediti della Regola in un 
codice

a) «L’amore evangelico» un enigma bibliografico e fonte segreta del «Dialogo», emendato, di Giovanni da Fano (doc. 1)

b) Una «Espositione» attribuita a fr. Angelo Tancredi compagno di san Francesco (doc. 5)

c) Commento inedito di Giovanni Maria da Tusa (doc. 6)

d) Commento inedito di Silvestro Bini d’Assisi (doc. 7)

4. I primi commenti «cappuccini» editi della Regola

a) La «Regola unica» di Gregorio da Napoli (doc. 9)

b) L’«Expositio» di Girolamo da Polizzi (doc. 10)

c) L’«Espositione sopra la Regola» di p. Santi Tesauro da Roma (doc. 11)

5. Ermeneutica «cappuccina» della Regola francescana

I cappuccini, come riforma francescana, riuscirono a stabilire subito un loro particolare approccio alla Regola di san Francesco e lentamente elaborarono un preciso metodo di interpretazione e di osservanza.

Dal gesto di Matteo da Bascio alle ordinazioni di Albacina (1525-1529) prende sempre più forma e consistenza la riscoperta del rapporto vitale tra la Regola e il Testamento di san Francesco, secondo quelle parole divenute programma per l’Ordine: «Abbiano sempre con sé questo scritto [ = il Testamento] accanto alla Regola. E in tutti i capitoli che fanno, quando leggono la Regola, leggano pure queste parole. E a tutti i miei fratelli, chierici e laici, ordino fermamente per obbedienza che non aggiungano glosse alla Regola e a queste parole con dire: ‘Così vanno intese’. Ma, come il Signore mi ha dato di dire e scrivere, semplicemente e puramente, la Regola e queste parole, così voi semplicemente e senza glossa intendetele e con santa operosità osservatele sino alla fine.[1]

La convinzione che non si poteva osservare la Regola senza osservare il Testamento divenne l’argomento privilegiato delle riflessioni riformistiche dei primi cappuccini, catalizzate poi dall’autorità di Francesco Tittelmans e fissate definitivamente nella prima legislazione. Il Tittelmans diceva che il Testamento «fu chiosa fatta dallo Spirito Santo sopra la nostra Regola, la più chiara e la piú bella che trovar si possa, fatta dal medesimo Spirito che la Regola», e che, per ciò, «era impossibile osservar perfettamente la Regola senza abbracciar per guida e per norma il Testamento».[2] E in questo non faceva che rinverdire il concetto di Giovanni Buralli da Parma ripreso da Angelo Clareno, per cui, «come nel comandamento e nel sacramento dell’amore consistono tutta la legge e i profeti e il Vangelo, così nel

Testamento di san Francesco sono racchiuse ogni perfezione e intenzione e la fedele e spirituale intelligenza della Regola; e non è possibile che uno disprezzi il Testamento e possa capire spiritualmente e osservare fedelmente la Regola».[3]

Le costituzioni del 1536 fissarono questo principio: «Si ordina che da tutti si osservi il Testamento del padre nostro san Francesco…. E questo accettiamo per spirituale glosa ed esposizione de la Regula nostra, sì come da esso a questo fine fu scritto».[4] Giovanni da Parma e con lui Angelo Clareno e gli Spirituali non avevano troppa simpatia verso commenti e dichiarazioni diverse dal Testamento e da altre ammonizioni di san Francesco sulla Regola. E questo atteggiamento fu assimilato dai primi cappuccini e tradotto in pratica di vita nei primi dieci anni della loro riforma, fino a quando vennero numerosi dotti e ferventi frati minori osservanti ad attutire ed equilibrare questa posizione radicale, già segnalata come pretenziosa nel breve Pastoralis offici di Clemente VII del 15 aprile 1534, alludendo ai

primi cappuccini che hanno «la pretesa di osservare la Regola del beato Francesco alla perfezione, non già secondo le dichiarazioni emanate finora dai romani pontefici, ma secondo il suo senso letterale».[5]

Le costituzioni del 1536, frutto maturo dell’apporto di questi ferventi osservanti, precisarono che, se è vero che la Regola deve essere osservata «emplicemente, ad literam, senza glosa», ossia «puramente, santamente e spiritualmente» senza «tutte le glose ed esposizioni carnali, inutili, nocive e rilassative», tuttavia non si devono respingere «le dichiarazioni de’ summi pontifici»,[6] specificate, poi, dopo il concilio di Trento, soprattutto nelle bolle Exit qui seminat di Nicolò III del 1279 ed Exivi de paradiso di Clemente V del 1312.[7]

Era questo già uno sviluppo del primitivo radicalismo letterale di osservanza della Regola e un tributo pagato alla mens dei dotti osservanti passati ai cappuccini e quasi un compromesso. Ma rimase sempre il principio dell’osservanza letterale e spirituale della Regola, alla luce del Testamento e degli altri scritti, detti e fatti di san Francesco che rivelano la «pia, giusta e divina volontà di Cristo» e del Vangelo.[8]

Su questo principio si svilupperà un’animatissima discussione vitale, una vivace predicazione interna all’Ordine e una feconda letteratura ascetica, teologica, giuridica e spirituale. Sono queste discussioni, questa predicazione e questi commenti cappuccini alla Regola che vogliamo qui presentare, nel tentativo di precisarne i rapporti, gli influssi vicendevoli, le fonti e gli sviluppi interni.

Non tutti gli autori sono noti o, se noti, non tutti hanno lasciato scritti o documentazione della loro lettura della Regola francescana. Nel giro di un secolo, il primo, di esperienza cappuccina, si incomincia da un «convertito», Giovanni da Fano, che trabocca di intuizioni, di idealismo e realismo, avendo alle spalle un’esperienza di responsabilità fuori e dentro la riforma, che gli ha permesso di confrontare uomini e cose e che, per questo, è diventato un’autorità fondamentale nell’analisi della Regola in senso riformato e nel conseguente linguaggio che trova perfetta corrispondenza con uomini nati e vissuti, per così dire, nella vita cappuccina, di cui riflettono tutti gli elementi di evoluzione e di assestamento spirituale e istituzionale.

Ma dopo Giovanni da Fano balza subito agli occhi un fatto curio-so: dal 1535/36, data della definitiva e carismatica redazione delle costituzioni di Roma-S. Eufemia e del primo commento, tutto cappuccino, della Regola francescana, si salta, con un divario enorme e significativo, al 1575/80, che è il periodo dell’immediato post-concilio tri dentino e della avvenuta revisione delle costituzioni dell’Ordine alla luce dei decreti conciliari. I primi 40 anni sono dominati dall’interpretazione di Giovanni da Fano e soprattutto da un fervore di animazione spirituale e dottrinale dei ministri generali (allora detti «vicari») nelle province italiane.

I successivi 40 anni, che corrispondono all’espansione europea della riforma, sono invece caratterizzati da un ripensamento estremamente articolato di tutta la forma evangelica di vita francescana attraverso un’analisi dettagliata, puntuale, per non dire alcune volte puntigliosa, delle singole parole della Regola di san Francesco che porta a far stampare ben tre esposizioni o dichiarazioni della Regola: di Gregorio da Napoli nel 1589, di Girolamo da Polizzi nel 1606 e di Santi Tesauro da Roma nel 1614.

Rimasero invece manoscritti, in ripetute copie, i commenti di Giovanni Maria da Tusa e di Silvestro d’Assisi, elaborati a partire dagli anni 1570/80, senza accennare ad altre spiegazioni della Regola che vennero alla luce in altre nazioni nel primo Seicento, per restare nell’ambito cronologico stabilito.[9]

Queste riletture della Regola possiedono una caratteristica che le rende inconfondibili. Ma solo i particolari delle riflessioni confrontati fra loro e la storia di questa volontà di osservanza letterale senza privilegi possono ricostruire il significato e il messaggio globale di questi commentari e discorsi.

Resta sempre indispensabile toccare da vicino la vita personale di questi uomini che focalizzano una mentalità e uno stile di osservanza francescana. Solo così è possibile cogliere, oggi, il valore di questo antico impegno. Partecipi del passato e della cultura della loro epoca, essi testimoniano, a proprio modo, i mutamenti che porta con sé una fedeltà nuova ad uno spirito già definito e proposto dai fondatori della riforma cappuccina e dalla sviluppo storico della loro opera.

Accostiamo allora questi commenti nello sviluppo di una metodologia di lettura e di linguaggio.

1. Il «Dialogo de la salute» emendato (doc. 2) e il «Breve discorso» (doc. 3) di Giovanni Pili da Fano (1536)

Non si può prescindere dallo stile e dal metodo di Giovanni Pili da Fano per ricostruire il formarsi delle riflessioni dei primi cappuccini sulla Regola. Il suo Dialogo, rifuso nel 1534/36 in difesa dei cappuccini, in contrapposizione a quello che aveva edito in senso anti-cappuccino nel 1527 ad Ancona, girava manoscritto tra i frati e nutri le prime generazioni dell’Ordine; ma non venne mai stampato. Invece il suo Breve discorso circa l’osservanza del voto della minorica povertà, distillato del Dialogo, venne edito a Brescia nel 1536 e ripetutamente ristampato nella seconda metà del ‘500 e tradotto in varie lingue a partire dalla fine del sec. XVI 10.[10]

Il metodo introdotto dal Pili è rilevabile da una lettura anche sommaria del testo. Egli passa in rassegna i vari capitoli della Regola e le diverse frasi, e intesse un dialogo per spiegare al suo interlocutore il significato voluto e inteso da san Francesco. A questo scopo utilizza un complesso di autorità ricavate dalla Bibbia, dalle bolle pontificie, soprattutto le due «fra tutte… ottime», dice egli, di Nicolò III e Clemente V; cita i santi padri, il diritto canonico, gli antichi commenti e riflessioni sulla Regola e osservanza francescana, compresi quelli di autori spirituali come l’Olivi, Ugo di Digne e meno chiaramente Angelo Clareno e Ubertino da Casale, come pure testi provenienti dall’ambito degli osservanti: san Bernardino, san Giovanni da Capistrano e altri.

Particolare risalto per raccogliere e presentare gli scritti, i detti e i fatti di san Francesco ha il libro delle Conformità’ di Bartolomeo da Pisa, al quale rimanda con frequenza. Egli dice di aver «studiato molti libri e croniche dell’Ordine e dottori santi e loro dechiarazione sopra la Regola».[11]

Dei libri editi in quel tempo, egli utilizzò soprattutto la raccolta di fonti giuridiche francescane come Speculum Minorum, che contiene un vero arsenale di testi spirituali francescani giuridici storici legislativi e le più importanti dichiarazioni antiche della Regola.[12] È anche abbastanza aggiornato perché cita varie volte l’allora recentissima Expositione della Resula di Frati Minori del Brendulino, cioè di Bartolomeo da Brendula, riformato, edita a Venezia il 23 agosto 1533.[13] Tutto gli serve per convincere i lettori sulla «vera intenzione di san

Francesco circa l’osservanza della Regola», che egli è certo di aver ritrovato, e di cui si fa apostolo e autorevole annunciatore. Per questo moltiplica i riferimenti a episodi biografici di san Francesco come esemplificazioni concrete e verifiche e conferme attuali della sua interpretazione.

Certo grava sul suo scritto quel continuo e pesante appoggiarsi su autorità dottrinali e giuridiche, la concezione della singolarità e unicità della Regola serafica di san Francesco come quella che esprime la massima perfezione evangelica, specie nell’altissima povertà e, secondo la logica dei vari precetti stabiliti dalle bolle pontificie e dal trattato di Giundisalvo e di Nicolò da Osimo, ‘obbligatorietà sub peccato mortale.[14]

II Bisogna tener presente, ad ogni modo, come giustamente ha fatto osservare F. Elizondo, che non «tutto quello che contiene la seconda redazione del Dialogo de la salute è espressione della mentalità cappuccina: sarebbe un errore di fondo per interpretarla correttamente; esistono in essa non pochi punti spiegati secondo criteri dell’ Osservanza, esposti in quanto tali dall’autore: solo così si uniscono pagine apparentemente opposte».[15] Infatti certe volte spiega come se parlasse ad osservanti, non a cappuccini. Il suo interlocutore stimulatus, infatti, non ha ancora fatto la scelta cappuccina, e perciò viene «stimolato» a far presto a entrare nella riforma e allora tutto sarà chiaro e non saranno necessari tanti argomenti di autorità e tante spiegazioni giuri-diche. Egli stesso lo riconosce, scrivendo nelle ultime righe del Dialogo: «Molte cose ha posto [l’Autore). circa il ricorso alli amici spirituali e sindici e molte altre cose, le quali in questa benedetta riforma delli cappuccini non sono necessarie, perché per la grazia del Signore si vive secondo la purità e simplicità della Regula; ma le ha poste per comune utilità delli altri, e acciò molti errori siano scoperti e li rilassati siano inescusabili».[16]

Tuttavia Giovanni da Fano, pur concentrando l’attenzione sulle frasi della Regola, con un’esegesi aderente alle «dichiarazioni dei papi e ai dottori dell’Ordine», propone soprattutto un’osservanza spirituale, individuata nella centralità dell’amore, nello spirito di orazione e devozione, nell’opera illuminativa e infiammante dello spirito di Cristo che guida i frati alla vetta dell’esperienza mistica cruciforme per mezzo di una radicale povertà interiore ed esteriore, che distacca il cuore dall’egoismo, dai vizi e peccati, lo rende puro e lo unisce a Dio, come è avvenuto per san Francesco. Questo è il sapore più «cappuccino» del commento alla Regola del Pili, ed è in questa prospettiva che si può cercare la tonalità nuova del francescanesimo rinnovato nel ‘500 italiano ed europeo.

2. I sermoni dei ministri generali durante le visite

Accanto al Dialogo di Giovanni da Fano, importante per chiarire gli ideali, ma anche le concretizzazioni nella vita quotidiana dei primi cappuccini, bisogna porre tutta un’animazione dei superiori generali e provinciali e locali che cercano di far osservare anche nei particolari la Regola in senso letterale, facendo scoprire come appunto nei piccoli particolari avviene il passaggio all’intelligenza e osservanza spirituale.

Le cronache primitive ci possono in questo aiutare a capire questa mentalità delle prime generazioni cappuccine,[17] e l’importanza delle visite canoniche dei ministri generali, come Bernardino d’Asti, Francesco da Jesi, Eusebio d’ Ancona e Girolamo da Montefiore, quindi nel periodo dei primi 40/50 anni della riforma, dal 1536 al 1575. Sappiamo l’ispirazione che guidava queste personalità nel loro servizio dei frati.

Bernardino d’Asti era convinto e insegnava ai frati che lo Spirito Santo aveva ritrovato «questo modo di vivere secondo la vera osservanza della Regola» e precisava che il padre san Francesco, dando la Regola, « non ebbe altro intento se non di ordinare i suoi frati, spediti di ogni impedimento, alla santa orazione, rimovendo da noi con i precetti della Regola quelle cose che ci impediscano la santa orazione e dandoci quei mezzi che ci fanno acquistare il vero amor di Dio, nel quale consiste l’osservanza di ogni bona legge».[18]

L’importanza di Bernardino d’Asti e il suo influsso furono grandissimi. E come assai sperimentato nei problemi della riforma dell’Ordine, che egli, con Francesco da Jesi già fra gli osservanti vagheggiava e sosteneva, le sue interpretazioni sul modo di osservare la Regola vennero stimate come un’autorità. E nella sua ispirazione e interpretazione mistica della Regola francescana egli ribadiva, anche con forza e a livello di legislazione, la necessità dell’osservanza letterale.

Se, ad esempio, la Regola dice che chi non sa lettere non deve curarsi d’impararle, ecco che egli nelle ordinazioni che emanò nel 1549 tirava questa conseguenza: «Nessun laico abbia libretto alcuno, eccetto la Regola volgare».[19] E, come principio generale, nelle ordinazioni per la provincia di Roma, stabiliva «che da tutti li frati che sono o saranno in questa provincia di Roma, si osservi la santa povertà e tutta la Regola da noi promessa integramente secondo la pia voluntà del nostro Signore Gesú rivelata ed espressa al nostro seraffico padre s. Francesco, al quale disse che voleva la detta Regola osservasse ad litteram senza glosa».[20]

E questo venne approvato per tutto l’Ordine nel capitolo del 1552: «Altissima paupertas et Regula serventur ad mentem S. P. Francisci ad litteram et sine glosa».[21]

Un esempio di analisi letterale della Regola che farà discutere molto alla fine del Cinquecento, lo diede lo stesso Bernardino d’Asti con la sua Dichiaratione intorno al portar tre panni (doc. 4), dal sapore autobiografico, ripresa dai cronisti e diffusa manoscritta in molte copie.[22] È una dichiarazione che diventa splendida testimonianza di vita vissuta nel periodo eroico e carismatico dell’Ordine, quando i frati erano cosí spiritualmente liberi da non far troppe distinzioni, come impegno, fra le piccole e minute cose e quelle grandi, perché il fuoco dell’amore faceva superare la stessa lettera della Regola.

Di Francesco da Jesi il Colpetrazzo scrive che pochi giorni dopo che si era fatto cappuccino, «incominciò a sermoneggare i frati dello stato di perfezione che promesso abbiamo al nostro Signore Dio per la Regola, di darci opera, che pareva un serafino tutto infocato dell’amor di Dio, facendo quasi tutti li suoi ragionamenti sopra la Regula, mostrando di quanta perfezzione la fusse e quanto difficilmente li frati si mantengono in questa perfezzione, perché chi osserva perfettamente la Regola di san Francesco si può chiamare santo».[23] Egli personalmente «stava molto nel rigore di osservare la Regola a lettera» e credeva che fosse rivelata, quasi come il Vangelo, e ne aveva un concetto mistico come «un modo di vivere bene accomodato alla santa contemplazione », come «vita mista» che è più perfetta perché «più conforme al santo Vangelo e alla vita apostolica, osservando con la povertà il comandamento dell’amor di Dio nella santa orazione e dell’amor del prossimo nella predicazione».[24]

Di Eusebio Fardini d’Ancona si legge nelle stesse cronache che «sempre, quando era prelato, esortava i frati alla vera osservanza della Regola e tutti i suoi sermoni li faceva sopra la Regola. E quando fu fatto generale volse dechiarare in tutte le provinzie in sei anni che fu generale tutta le Regula, e non poco fecero frutto i suoi sermoni».[25] Purtroppo di tutti questi sermoni non è rimasta traccia o copia manoscritta. Eppure hanno creato e sviluppato una mentalità nell’Ordine e uno stile di osservanza.

Per fare un esempio, nel capitolo di Napoli del 1559 si stabilì, tra l’altro, di lasciare ben cinque conventi della provincia della Puglia perché i frati non potevano in essi vivere secondo la purezza della Regola.[26] Dopo il capitolo del 1552 Eusebio d’Ancona nelle sue visite riprendeva fortemente i predicatori che, lasciata l’antica semplicità, facevano gli affettati e diceva che questo è segno di rilassamento nell’Ordine.[27] Ma basta accostare un po’ i diversi ministri generali di allora per ritrovare lo stesso zelo di osservanza della Regola.

È dopo il concilio di Trento che l’insegnamento della Regola si precisa sempre più tecnicamente secondo le dichiarazioni pontificie e le precedenti esposizioni dei teologi e giuristi, per cui al n. 17 delle costituzioni venne aggiunto definitivamente il seguente passo: «I maestri usino diligenza di farli imparare, in quell’anno che saranno novizi, tutta la Regola alla mente, e quali siano i commandamenti di essa Regola e i consigli e ammonizioni che il nostro serafico padre ci dà in quella, mostrando loro qual fosse l’intenzione di esso nostro santissimo padre circa all’osservanza della Regola».[28]

3. Commenti «cappuccini» anonimi e inediti della Regola in un
codice

La ricerca nei vari archivi e biblioteche potrebbe, su questo punto, riservare nuove sorprese e, forse, far rintracciare del materiale utile a ricostruire questo insegnamento e predicazione sulla Regola. Si sa, per esempio, che Angelo d’Asti (+ 1560) della provincia di Genova, avrebbe scritto un Trattato sulla povertà serafica; e lo stesso avrebbe fatto Eusebio d’Ancona; ma di queste opere non si hanno tracce. Cosí Girolamo Caluschi da Milano (+ 1584) avrebbe pure composto un altro trattato sulla povertà dei frati minori. Francesco da Cannobio (+ 1569), segretario del capitolo generale di Roma-S. Eufemia del 1536, al dire del Colpetrazzo, avrebbe compilato un noto, allora, libretto sulla povertà: «Egli fu che compose quel trattatello della santa povertà».[29] Ma anche di questo non si hanno tracce, a meno, per fare un’ipotesi, che si tratti del Breve discorso di Giovanni da Fano che egli abbia raccolto in sintesi dal Dialogo de la salute.

La sorpresa più grossa è venuta dall’archivio provinciale dei cappuccini di Assisi, dove si conserva un grosso codice miscellaneo che, per l’argomento che stiamo affrontando, ha un’importanza unica. E ancora non è stato valorizzato e studiato. Il codice misura 27 x 19 cm. ed è numerato in pagine 1480 da matita di mano moderna. È rilegato con grossa copertina di cuoio lavorato e incollato su tavolette di legno con il segno di due borchie e ganci di ferro e fettuccie di cuoio per tenerlo legato insieme. È cartaceo con fogli pergamenacei inseriti tra un trattato e l’altro, che facevano parte di un antico codice che riportava su due colonne un commento alla Divina Commedia di Dante.[30] Sul dorso tra le costolature della rilegatura, su una striscia di carta incollata si legge: Esposiz[ion]e sopra la Regola | Di S. Francesco. In basso, sempre sul dorso, un altro bigliettino incollato riporta un’antica segnatura in verticale: F. III. 1. Proviene dall’antico convento di Amelia, piccolo centro dell’Umbria in provincia di Terni, ma non si hanno particolari notizie della storia e dei viaggi e tradizione di questo codice.

L’ignoto compilatore l’ha illustrato con delle stampe oggi rarissime, forse uniche, particolarmente una, utilizzata in tre copie distinte, tagliata e incollata qua e là, colorata a mano e rappresentante l’episodio di Fonte Colombo con i ministri e frate Elia che protestano da una parte, e san Francesco sul monte dall’altra e in alto Cristo che parla dalle nubi; scena incorniciata originalmente da 12 quadretti illustranti i temi dei dodici capitoli della Regola, ma tagliati e disseminati su vari fogli. Questa stampa porta la data 1584.[31] Il compilatore ha cercato, con l’arte povera, propria dei cappuccini, di dare al manoscritto l’apparenza di codice miniato, disegnando a mano, in penna, dei curiosi ornamenti ai vari titoli, colorando le iniziali maiuscole, aggiungendo a piè pagina, per ben 563 pagine (poi, probabilmente si sarà stancato), inquadrati in striscie ornamentali, molti detti biblici e ascetici; e inventando anche graziosi disegni naïf a penna, con fraticelli dal cappuccio aguzzo che spuntano dai boschi, con chiesette svettanti sui colli e un cielo solcato da rondinelle nere.

L’importanza del codice, ovviamente, non sta in questi curiosi particolari ornamentali, ma nel contenuto antologico, per cui si potrebbe, in un certo modo, definirlo la versione «cappuccina» delle raccolte come Speculum Minorum o Firmamenta trium Ordinum che riproducono, fra le altre cose, i commenti antichi più significativi della Regola francescana.[32] Nel nostro caso, invece, vengono riprodotti i primi e più antichi commenti «cappuccini» della Regola.

C’è, prima di tutto, una lunga Dichiaratione della Regola, compilata da p. Silvestro Bini di Assisi (+ 1609), compresa nelle pp. 9-562; a questa segue una copia del Dialogo de la salute emendato, di Giovan ni Pili da Fano, tra le pp. 569-731; poi la Dechiaratione sopra la Regola scritta da p. Giovanni Maria Bruno da Tusa (t 1584), nelle pp. 736-859; segue la Dechiaratione della Regola fatta da p. Girolamo Errente da Polizzi Generosa († 1611), tra le pp. 855-1061. Altra «umile esposizione» è attribuita addirittura a frate Angelo Tancredi, compagno di san Francesco e si legge alle pp. 1067-1191; mentre alle pp. 1202-1233 è proposto un testo dal titolo singolare: L’amore evangelico sopra la Regola di S. Francesco. Qui terminano i veri commenti alla Regola.

Segue alle pp. 1236-1260 una raccolta schematica di punti ricavati dalle diverse dichiarazioni papali sulla Regola e frammenti di un commento breve alla Regola, che giunge fino al terzo capitolo, nelle pp. 1441-1449. Il resto comprende testi vari di carattere ascetico e teologico-morale e giuridico, frammenti di un commento sull’Apocalisse e un lungo ricettario. Ma sarebbe troppo lungo descrivere esaurientemente questo curiosissimo codice.

La numerazione originale è fatta per lettere a fascicoli di 6 ff ciascuno, i primi tre segnati A., A.2, e gli altri tre non segnati; poi B., B.2, B.3 e così via fino a Z; poi A.a, A.a.2, A.a.3 ecc. fino a S.s.s.s.s.s.3 a p. 1477. La scrittura è di più mani. Si potrebbero distinguere oltre dieci mani e questo pone grossi problemi di datazione. Dal confronto delle varie scritture si potrà fuori dubbio risalire a dare un nome ai diversi trascrittori e anche al compilatore.

Una cosa tuttavia sembra sicura: la divisione in paragrafi con i corrispondenti titoli che in ogni commento alla Regola viene presentata come un piccolo schema riassuntivo prima di ogni capitolo, è della stessa mano. Quindi sembra che il compilatore abbia incaricato diversi per la trascrizione e poi abbia riuniti e coordinati i vari testi con le illustrazioni e ornamenti a penna accennati sopra e coi titoli in grassetto calligrafico goticheggiante e lo stesso con le testatine. E questo aggiustamento deve essere avvenuto, coordinando le varie date che risultano nel testo, nei due ultimi decenni del sec. XVI.

Un’altra osservazione che rende più probabile la datazione del codice consiste nel fatto che tutti questi commenti sono inediti, e due sono pure anonimi, ma risultano di sorprendente interesse per la nostra ricerca.[33] Questi due testi anonimi sono: L’amore evangelico sopra la regola di san Francesco e l’Esposizione attribuita a Frate Angelo Tancredi. Accostiamoli con attenzione uno dopo l’altro.

a) «L’amore evangelico» un enigma bibliografico e fonte segreta del «Dialogo», emendato, di Giovanni da Fano (doc. 1)

L’identificazione dell’autore di questo scritto anonimo non è stata ancora fatta. Per ora, da parte nostra, si cammina nel buio. Resta un caso bibliografico misterioso, un enigma curioso e affascinante.

Lo scritto ha quasi il sapore di lettura «esoterica» della Regola fra i cappuccini. Non ne esistono, a quanto pare, altre copie note e neppure risulta, sempre per quanto noi sappiamo, nella biblio-storiografia della Regola francescana.[34] E, purtroppo, anche la copia del codice assisano si presenta acefala e frammentaria.

Infatti alla p. 1199 vengono riportati dal compilatore i cinque paragrafi (coi rispettivi titoli) in cui è diviso il primo capitolo; poi segue un foglio pergamenaceo; sul retto di questo foglio sta incollata una bella incisione a stampa che rappresenta santa Maria Maddalena con le mani incrociate davanti al petto e col Crocifisso in mano, capelli sciolti lungo le spalle, volto estatico e lacrimoso nella contemplazione della Passione, ma duro, non macilento né effeminato; il tutto ambientato in una grotta, con due angioletti svolazzanti in alto, che fanno da cornice alla scena, in una prospettiva di cielo da cui scende un chiaro lume spirituale come un sole. Poi si nota un foglio strappato sul quale era scritto calligraficamente il titolo come frontespizio del testo in questione, che forse avrebbe potuto dilucidare la provenienza e l’autore. Il titolo più probabile sembra essere: L’amore evangelico sopra la Regola di san Francesco, come risulta dalle testate dei fogli e dai titoli dei superstiti capitoli.

Vien riportato il primo capitolo della Regola e relativo commento, mancante però della prima pagina che comprendeva il frontespizio e le prime battute del commento. Segue, stavolta completo, il commento al secondo capitolo della Regola, fino a p. 1223. La pagina seguente è bianca. La successiva riporta i titoli dei cinque paragrafi dell’ultimo capitolo, il dodicesimo, della Regola e relativo commento, il cui frontespizio si legge in un foglio non numerato e strappato a metà, tra p. 1225 e 1226, con disegni a penna colorati che rappresentano l’arca di Noè con la colomba e il ramoscello d’olivo nel becco; mentre sul verso di questo mezzo foglio, inquadrato fra ornamenti sempre a penna con stemma dello spirito Santo sollevati da due angioletti, si legge il titolo: Seguita il duodecimo et ultimo capitolo. Seguono le prime parole latine del cap. XII della Regola; ma lo strappo della pagina non permette di cogliere le prime frasi del relativo commento che, così, acefalo, continua a p. 1226 fino a p. 1233.

Mancano, quindi, nove capitoli della Regola e il loro commento. Neanche toglie il velo del mistero, anzi lo infittisce di più, una lettera trovata ultimamente nell’archivio provinciale dei cappuccini toscani a Firenze, scritta da p. Vito da Lucca (+ 1610) al compagno scrittore di Mattia Bellintani da Salò (+ 1611), cioè a p. Giacomo da Salò (t 1621) il 14 febbraio 1594, sulla quale ci soffermiamo un istante.

Il testo di questa lettera riporta alcune notizie, come di aver visto nel convento di Nizza una cronaca antica di Ubertino da Casale sulle persecuzioni dei frati zelanti che «credo – scrive egli – che il padre Mattia li piacerebeno e sarebbe bene che le mettesse nelle sue Croniche». Ma inizia con una segnalazione particolare che, così come suona, resta incomprensibile. Dice, infatti, con linguaggio colorito e spontaneo, caratteristico anche … ortograficamente: «Se più presto mi fusse chapitata la vostra e a me gratissima, arei mandato il libro un pesso fa. Con la comodità di frati lo [ = l’ho] mandato subito al padre guardiano di Siena, come V. P. mi ordina. Mi rincrescie in sine all’anima che perché ho chativa mano et per la fretta che avevo acciò l’avessi, avanti che mi partissi di provincia, nun lo potuto iscrivere in buona lettora; ma con tutto ciò di mano in mano lo ischontrato. Però istate seguro che non ci è abagli nessuno, e se non ve ne potessi servire in richopiarlo che ci fusse qualche parola che non intendessi, io vi manderò il nostro et a vostro bellagio richopiatelo che a me mi basta che mello rimandiate».[35]

L’incomprensibilità di questi appunti viene cancellata da una noticina di p. Giacomo da Salò che dice: «Per le Croniche, che a Nizza sono le Cronache di f. Ubertino. Il libro copiato è l’amor evangeli]co del P. Gio[vanni] da Parma. Nota che è ligato in dui tomi in 12 et gli ha havuti in prestito il P. f. Luciano».[36]

Quindi p. Vito da Lucca avrebbe copiato questo testo de L’amore evangelico che teneva con sé e una copia la inviò a Siena perché fosse spedita a p. Giacomo da Salò. Dietro le quinte probabilmente c’è Mattia Bellintani che deve aver richiesto questo scritto. Altra notizia è che la copia era in due tomi in -120 e venne prestata a p. Luciano Soncini da Brescia (+ 1618), maestro dei novizi per 37 anni nella provincia di Brescia. Tuttavia la notizia più sensazionale e sconcertante è che questo commento della Regola sarebbe stato composto nientemeno che da p. Giovanni Buralli da Parma (+ 1289). Ma invano si cerca tra le opere attribuite al Buralli uno scritto che, anche lontanamente, possa assomigliare a questo «Amore evangelico».[37]

L’unica strada è una lettura interna del testo. Già dalle prime battute appare una scelta di linguaggio e di parole significativa: «Spirito di Cristo», «virtù spirituali» del Vangelo, «Francesco altro Cristo», i frati minori «umili e spirituali», «senso spirituale», «Spirito Santo e la sua carità», «amore cordiale», «cordialmente» ecc. Da una prima ricognizione, questo linguaggio sembra piuttosto di ascendenza clareniana, sia nel titolo «amore evangelico» che Angelo Clareno usa spesso applicato alla Regola, per es. «regula caritatis et perfectionis Christi evangelii», oppure «regula caritatis evangelii Jesu Christi» ecc., sia nel termine «amore cordiale» con l’avverbio «cordialmente» e lo stesso per altre espressioni.[38]

Ma l’aspetto più incredibile di questo anonimo e frammentario commento alla Regola francescana appare quando si confronta con il Dialogo ’emendato’ di Giovanni da Fano. È impressionante la coincidenza di alcuni testi che sembrano un riassunto o una trascrizione abbreviata di brani più diffusi de L’amore evangelico. Si possono individuare almeno cinque testi diversi che, nel tessuto del Dialogo, sono, di solito, i più spiritualmente significativi e sono, in genere, discorsi per ridonanza messi sulla bocca di san Francesco nello stile rettorico della prosopopea.[39]

Questo fatto curioso porta ad alcune conseguenze interessanti: sembra criticamente molto più probabile, proprio per il maggior sviluppo dei brani de L’amore evangelico, che questo commento sia stato usato e copiato liberamente da Giovanni da Fano con lo stesso metodo con cui, nell‘Arte de la unione, copiò il manoscritto ancora inedito dell’opera mistica di Bartolomeo Cordoni.[40] Inoltre possiamo asserire di aver individuato la fonte più segreta e spirituale del Dialogo ’emendato’, anche perché non trova nessun riscontro con lo stile, il linguaggio e il contenuto del primo Dialogo stampato. Questa ci pare la prova più forte.[41]

Allora significa che Giovanni da Fano trovò e lesse il testo de L’amore evangelico dopo il 1534, quando entrò nella riforma cappuccina. Lo meditò forse a Scandriglia, dove si era ritirato a fare il suo mini-noviziato «cappuccino» che durò pochi mesi? Oppure a Roma o al Nord Italia dove Ludovico da Fossombrone lo aveva inviato a piantare la riforma cappuccina, dando inizio alle province veneta e lombarda? Non sappiamo. Il focoso ex-osservante si accontenta di dire di aver «studiato molti libri e croniche dell’ordine, e dottori santi e loro dichiarazioni sopra la Regola».[42]

Si potrebbe dare una risposta più precisa se si trovassero altri codici de L’amore evangelico, come pensiamo che ci siano. Per ora, quella che abbiamo usata è l’unica copia e, per di più, acefala e frammentaria. E tuttavia è una spia fondamentale per entrare nelle intenzioni dei primi cappuccini.[43]

Vuol dire, ancora, che questo testo, attribuito sicuramente a Giovanni da Parma da p. Giacomo da Salò, probabile portavoce di una convinzione comune dei cappuccini di allora, è stato redatto verosimilmente, fino a prova contraria, da un cappuccino molto spirituale, prima del 1536; ed era un testo che, come tanti altri, girava manoscritto tra i frati, attribuito a Giovanni da Parma per confortare l’insperato e incredibile ritorno alle origini dell’Ordine, verificatosi con la riforma cappuccina.

b) Una «Espositione» attribuita a fr. Angelo Tancredi compagno di san Francesco (doc. 5)

Questo riferimento alle origini dell’Ordine sembra ancor più evidente per l’altro commento anonimo riportato sullo stesso codice assisano con l’inverosimile attribuzione a uno dei primi compagni di san Francesco, frate Angelo Tancredi.

Angelo Tancredi di Rieti era additato da Francesco come «cortese» e «adorno di ogni gentilezza e bontà», essendo il «primo cavaliere entrato nell’Ordine»,[44] ed era uno dei famosi «tre compagni» che fissarono per iscritto le loro memorie su san Francesco e firmarono la lettera di Greccio. Fu sempre vicino al Poverello soprattutto negli ultimi anni della sua vita, dalla Verna al transito a S. Maria degli Angeli: quindi un qualificato testimone dell’intenzione e volontà del santo.

L’attribuzione sembra perciò simbolica. Infatti il titolo di questo commento: Nel nome del nostro Signore Jesu Christo et della sua Madre Santissima et del nostro serafico padre san Francesco incomincia il prologo sopra la regola evangelica da Dio rivelata al beato suo confessore Francesco, con una humile espositione sopra l’istessa, fatta da Frate Angelo Tangredi suo compagno, ricorda piuttosto il titolo aggiunto dell’Esposizione di Angelo Clareno, come si legge almeno in due manoscritti diversi.[45] Del resto, un’altra copia dello stesso commento attribuito al Tancredi, risalente alla fine del sec. XVI, conservata pure ad Assisi nell’archivio provinciale dei cappuccini, nel cod. A della Cronaca del Colpetrazzo descritto da Melchiorre da Pobladura,[46] riportava, nel titolo, il nome di Agostino, poi corretto con Angelo. L’amanuense, ovviamente, copiava senza cognizione critica.

Nel grosso codice assisano si legge, sul foglio del titolo, in fondo pagina, scritto da mano diversa, questa nota: «In leggendo questa sposizione si capisce, non esser ella di F. Tancredi, ma quasi tutta di chi la scrisse in questo volume».[47] Il testo in gran parte è scritto da una sola mano, eccetto le prime pagine.[48] La verità è che si tratta, come ben disse lo stesso Pobladura, di una «simplex italica adaptatio celebris expositionis Angeli Clareni». Forse si è voluto evitare chiaramente il nome di Angelo Clareno, troppo compromesso, cambiandolo in Angelo Tancredi. Realmente è un «adattamento», più che una traduzione; anzi, un chiaro pretesto basato sullo scritto del Clareno per appoggiare e propugnare le opzioni della riforma cappuccina. Infatti, nel prologo, tradotto liberamente e piuttosto spulciato dal testo del Clareno, emergono riflessioni originali che fanno capire l’intento dell’autore anonimo, come questa: «acciò che quelli, li quali la vera osservanzia impugnaranno, et conculcaranno, possino da zelatori di essa Regola esser cognosciuti et vinti, et anco possino immitare l’evangellica vita a noi data dal nostro Signor Jesu Christo, et da Santi Apostoli osservata et predicata, et in S. Francesco nostro padre, et in tutti quelli che il vorranno seguitare, di nuovo al mondo con opere et parole dimostrata. Amen».[49]

Non è chi non colga, dietro queste parole, l’ansia dei cappuccini che vogliono difendere la loro vita riformata. Così il commento alla bolla Solet annuere di Onorio III è tutto nuovo. Sono inseriti episodi biografici in gran numero e, per lo piú, attribuiti alla tradizione dei primi compagni del santo, ma anche diversi racconti o detti tolti dalle Vitae Patrum (ma molto meno numerosi), come pure i detti profetici di san Francesco: e in questi ultimi aspetti si nota l’influsso del Clareno.

Molti episodi biografici di san Francesco sono amplificati e commentati e applicati alla vita concreta dei frati, utilizzando, magari, suggestioni ricavate da varie letture, come dal Chronicon o Historia septem tribulationum dello stesso Clareno, o da opuscoli di san Bonaventura o da altre fonti. Certe volte lo stile e il modo di porgere sembra assai vicino a quello di Bernardino da Colpetrazzo, per cui viene il sospetto che il cronista abbia conosciuto questo testo, o addirittura abbia usato lo stesso grosso codice assisano.

c) Commento inedito di Giovanni Maria da Tusa (doc. 6)

Il voluminoso codice di Assisi, come dicevamo, raccoglie anche alcuni commenti inediti, dei quali conosciamo l’autore. In particolare interessa per ora quello di Giovanni Maria Bruno da Tusa, non mai stampato, ma copiato in numerosi codici.

Abbiamo la fortuna di avere una precisa cronologia della vita di questo autore, seguendo alcune note autobiografiche lasciate da lui stesso in un libretto autografo di prediche quaresimali.[50] Nato a Tusa, paesino nei pressi di Messina, nel 1532, dalla famiglia Bruno, gli dice di essere entrato nell’Ordine a 16 anni e di aver ricevuto l’abito cappuccino dal guardiano del convento di Palermo p. Basilio da Catania il 2 febbraio 1548, durante il provincialato di p. Arcangelo da Catania ed essendo vicario generale Bernardino d’Asti. Allora la provincia di Sicilia era una sola in tutta l’isola. Fu ordinato sacerdote a 24 anni nel 1556, essendo provinciale p. Tommaso di Castello e generale Eusebio d’Ancona. Nel 1560, a 27 anni, ricevette l’officio della predicazione, essendo provinciale p. Ludovico da Noto e generale Tommaso di Castello; e iniziò a predicare a Gipso presso Messina. Dal 1561 fino al 1570 predicò in varie città dell’isola; poi nella provincia di S. Michele Arcangelo ad Ascoli nel 1570/72, nella provincia delle Puglie nel 1573, in Abruzzo nel 74, nel 75 nella provincia di S. Angelo; poi ancora in Abruzzo nel 1576 e finalmente rientrò in Sicilia nel 1577. Predicò a Terne, a Catania nel 1577 e ’78 e poi andò a Roma dove predicò la quaresima nel 1579 a Roma Prenestina, nel 1580 nella chiesa di S. Celso e a Frascati nel 1581. Qui termina la nota autobiografica, perché nel 1581 Giovanni Maria da Tusa fu eletto vicario generale dell’Ordine, essendo stato prima, dal 1575, definitore e procuratore generale.

Le testimonianze dei cronisti e le memorie locali sono unanimi nel definirlo «gran canonista e di vita molto esemplare e molto prudente nel governo”;[51] oppure «gran dotto e canonista, talmente ch’essendo egli procuratore di corte in Roma della nostra religione, fu stimato il maggior canonista che si trovasse all’hora in Roma, essendo che da lui si faceva molto concorso in simil materia, nel quale tempo si trovava ancora in vita et a Roma il dottore Navarro, il quale ne faceva gran caso».[52] Infatti il «dottor Navarro», ossia Martino di Azpilcueta era molto amico e difensore dei cappuccini,[53] ed era pure molto familiare con p. Tusa. Questa relazione avuta dal p. Agostino d’Asti aggiunge che il Tusa «fu fatto provinciale della sua provincia di Sicilia» prima della divisione e prima ancora che terminasse fu mandato a dirigere la provincia di S. Angelo in Puglia. Era tanto fruttuoso e si estendeva in dechiarare casi di conscienza».[54] Il Bellintani precisa che era molto temperante, anche nelle fatiche delle visite canoniche ed era «di natura mansueto e non procedeva a punire se non molto costretto dalla chiara evidenza dell’eccesso».[55]

Una testimonianza contemporanea dice: «Questo padre non fu così rigoroso come il suo antecessore, perché andava nelle sue accioni con grande fondamento». Fu lui a introdurre i «processi» per evitare che i provinciali fossero troppo severi nel dare la penitenza, e volle che «li processi si conservassero per iustificatione del giudice».[56] Tutti sottolineano la sua predicazione ai frati sulla Regola: «Andò questo reverendo padre visitando tutta la Religione nella Italia et, per tutte le provincie dove faceva il capitolo, declarava tutta la Regola alli frati; del che molti frati, mentre sermoneggiava, la scrivevano, et ne furno fatte molte copie, quasi per tutta la religione, cosa molto utile et necessaria a sapere da frati».[57]

«Dichiarò la Regola in tutte le provincie», scrive il Colpetrazzo[58] e Mattia da Salò ribadisce: «Visitando sermoneggiava sopra la Regola, dichiarandola; la qual dichiarazione da molti frati si scrisse et è stata tenuta in conto dai frati».[59] Il cronista milanese Salvatore da Rivolta scrive che il Tusa era un «padre di gran valore e spirito. Dichiarò la Regola qui in Milano con gran sodisfazione di tutti i frati, con i quali era benignissimo. Mangiava se non una volta al giorno, e non mai carne».[60] Infine il Boverio nei suoi Annales, quasi riepilogando, presentò Giovanni M. da Tusa come «totius regularis observantiae propugnator acerrimus, cuius illud, praeter alia, testimonium est, quod etiamnum per fratrum manus, quaedam haud aspernenda regulae Expositio, ab e compacta, pervolat, scriptis tantum commendata».[61]

Il commento alla Regola del p. Giovanni M. da Tusa, quindi, ebbe ai suoi tempi una grande divulgazione. E ancora era letto volentieri dai frati, come scrive il Boverio, nonostante che già fossero ufficialmente in circolazione altri commenti e per di più stampati, come quello di Girolamo da Polizzi e di Santi Tesauro. Copie manoscritte se ne trovano ancora nelle biblioteche e archivi cappuccini. Un primo sondaggio dà il risultato di almeno 14 copie.[62]

Queste numerose copie devono confrontarsi con il ms. autografo di Giovanni M. da Tusa, originale, e fondamentale, conservato ancora nell’archivio provinciale dei cappuccini di Messina. È un cod. cartaceo, rilegato in legno coperto di cuoio ornato, 15,3 x 11 cm., di 198 ff. numerati recentemente. La scrittura è nitida con rare correzioni. Porta questo preciso titolo: Manuale dove so’ scripti alcuni sermoni de alcune | domeniche, et altre cose pertinente al regimento di prelati spirituali | et maxime del Ordine de’ frati | Minori li quali desidera | no il ben vivere et dedicarsi al Signore.[63] Un’altra mano aggiunge: «Scritta di mano del p. Tusa generale et havuta dal p. Paolo da Tusa predicator Capuccino e lasciata al luogo di Tusa de’ padri capuccini per memoria di tanto padre generale | Scaffa 4a-, Pilastro 4°, n°. primo |. Con l’esposizione della Regola di | mano di detto Padre Generale».

Questo codice riporta, quindi, nei ff. 98r.- 157r, l’originale autografo del commento alla Regola che il p. Tusa compose già prima di essere fatto generale, allorché divenne provinciale in Sicilia e poi altrove, a partire dal 1561 a Foggia e anche nel 1573, e dal 1565 in Sicilia, fino a quando fu fatto procuratore generale nel 1575 e 1578. Il titolo completo di questo suo commento è: Jesus Maria Franciscus. Expositione de la regula di frati Minori per modo di sermone secondo la declaratione de’ Sommi Pontifici et di altri doctori li quali non deviano dal vivo sensu de la littera et voluntà del seraphico Patre sancto Francesco.[64]

Questa esposizione era portata sempre dal p. Tusa nelle sue visite canoniche e in occasioni di capitoli provinciali egli organizzava sistematicamente una serie di sermoni devoti ai frati sulla Regola, spiegando i vari capitoli, e se non esauriva la spiegazione, la continuava nei successivi capitoli provinciali.

Il confronto tra l’autografo e le copie disseminate nei vari archivi potrebbe diventare tema di un interessante studio. Si nota una forte differenza di tono e di materiale, anche se si ritrovano sempre gli argomenti di fondo usati dallo zelante superiore nelle sue spiegazioni.

Gli appunti autografi spesso non svolgono tutti i particolari del tema che vengono lasciati all’improvvisazione del momento, con possibilità di moltissime variazioni, e sembrano, quindi, piuttosto un pro-memoria, soprattutto per fissare i punti fermi della dottrina teologica, morale e giuridica. Invece le copie presentano una notevole varietà e si possono individuare sviluppi di temi appena accennati nell’ autografo o sintesi di pensieri più sviluppati nell’ autografo o confidenze personali uscite spontanee nel vivo della predica, ma non segnate sull’autografo; oppure un supplemento di riflessioni giuridiche pertinenti a determinate casistiche della Regola e che, forse, per particolari esigenze locali, richiedevano una più accurata soluzione.

Si può anche intravvedere l’apporto del trascrittore che, inizialmente raccoglie dalla viva voce il testo fatto di note, appunti, schemi ecc. e poi lo ridimensiona organicamente a tavolino, aggiungendo, magari, perché più pertinenti, altre autorità e altro materiale, probabilmente non usato dal Tusa, per arricchire il commento e incarnarlo di più nella situazione locale.

Nella raccolta di queste copie fatte dai frati ci sembra di poter individuare una duplice redazione e trascrizione: una più dotta con molte aggiunte e ampliamenti, al punto da sembrare quasi un commento nuovo; e una più semplice, più breve e più vicina, in certo modo, all’originale autografo. La prima probabilmente riflette una elaborazione fatta nella provincia di Milano; la seconda deve essere stata compilata in Umbria o nelle Marche. I titoli di queste copie presentano infatti alcune sottili variazioni che giustificano le distinzioni proposte. Quella milanese dice: Dichiaratione | della Regola de’ Frati Minori | fatta dal M. R. P. Generale il P. Giovanni] Maria da Tusa | Capuccino nel Capitolo provinciale di Milano | l’anno 1583.[65] Altra copia porta nel titolo la variazione: congregato in Milano nel mese di settembre 1583, ed è simile, cosí pare, alla copia che si conserva a Genova: Dichiaratione sopra la Regola nostra de’ frati Minori fatta dal R.do Padre fra Gio[vanni] Maria di Tosa Generale de’ Capuccini nel Capitolo provintiale congregato l’anno 1583 nel mese di settembre il giorno della Madona.[66] In effetti Giovanni M. da Tusa venne in provincia di Milano «l’anno 1583 di luglio e di settembre – scrive il cronista Salvatore da Rivolta -, convocò il capitolo provinciale a Milano, nel quale fu eletto il p. Giacomo Caldarino da Milano, et in questo capitolo vi si trovò san Carlo e mangiò in refettorio, e doppo pranzo all’altare l’istesso santo fece un bellissimo ragionamento in lode della Religione nostra, e poi solennemente benedisse tutti i frati».[67]

Invece la copia di provenienza umbra o marchigiana porta questo titolo: Dichiaratione sopra la Re- | gola de’ Frati Minori fatta da molti Sommi Pontefici et | Dottori de l’Ordine, compi- | lata dal molto R.P.F. Giovannil Maria da Tusa, nel tempo | che fu Generale.[68] Un caso curioso è la combinazione di Giovanni da Fano con Giovanni M. da Tusa. Nel ms. napoletano delle Cronache di Mario da M. Saraceno, ai ff. 2031-241r, si leggono estratti di Giovanni da Fano e del p. Tusa ai primi tre capitoli della Regola, ma tutto esposto in modo personale, così che non si può dire Dialogo di Giovanni da Fano, come farebbe intendere il titolo: Molte cose pertinenti alla dichiaratione della Regola de’ Frati Minori estratte dal Dialogo sopra la regola per il R.do Frate Giovanne da Fano composto nel tempo che era nella religione capuccina.[69]

Tutto questo sta a dimostrare la «popolarità» e l’accoglienza che nell’Ordine ha avuto questo commento alla Regola del generale siciliano, dal quale risalta un grande zelo di osservanza, un grande amore a san Francesco, una grande semplicità di linguaggio, soprattutto in quelle fervorose ammonizioni spirituali con le quali, solitamente, conclude gli argomenti più importanti dei capitoli della Regola.

Egli commenta parola per parola il testo legislativo e lo applica alla vita concreta dei «fratelli» con chiarezza, buon senso e precisione, da buon giurista, ed è rimasta famosa la sua soluzione che fece superare gli scrupoli di austerità dei frati marchigiani, i quali per l’inverno costellavano di pezze qua e là il proprio abito, così da evitare di portar tre abiti (cioè due tonache e il mantello). Invece, «dopo che venne lui e fece una certa dechiaratione de la Regola – scrive il cronista marchigiano Bernardino da Orciano – nella quale provava che si poteva portare un abito lacero e frusto, sopra il buono, e purché fosse cuscito nel collo, bracci e a piedi si dovea giudicare un sol habito, e dava la similitudine di un gipone (- giubbone) foderato, che non è se non un gipone, ma scusito sono doi, cominciò a usarsi da alcuni, e fu poi messo in uso da tutta la provincia».[70]

d) Commento inedito di Silvestro Bini d’Assisi (doc. 7)

Un altro commento inedito raccolto nel codice assisano ha per compilatore p. Silvestro Bini d’Assisi (+ 1609), un personaggio che, visto attraverso i principali avvenimenti della sua biografia, fa intendere molte cose sulla qualità della sua lettura della Regola.

Vi Entrato nell’Ordine nel 1567, insegnò per oltre 30 anni filosofia e teologia nella provincia di S. Francesco in Umbria, dove esercitò per due volte l’ufficio di ministro provinciale dal 1590 al 1595. Era stato guardiano a Perugia, Assisi, Spoleto e altrove e aveva contribuito molto alla fabbrica del nuovo convento di S. Antonio abate, ad Assisi, nel 1595. Fu eletto definitore generale dal 1596 al 1602.

È questo il periodo in cui nel «ministerium generale» si succedono eminenti personalità: Girolamo Stefani da Sorbo nel 1596, Girolamo Gerardoni da Castelferretti nel 1599, san Lorenzo da Brindisi nel 1602 e tra i definitori Anselmo Marzati da Monopoli, che sarà il primo cardinale cappuccino, Santi Tesauro da Roma, Paolo Angelini da Cesena, Dionigi Scotti da Piacenza ecc. E anche il periodo in cui venne compilato il Modus procedendi, l’esplosione, quindi, dell’organizzazione e istituzionalizzazione dell’Ordine che si era fortemente ingrandito e contava oltre 30 province.

Silvestro Bini il 27 maggio 1605 fino al 23 maggio 1608 succedette nel generalato a san Lorenzo da Brindisi. E non era facile il suo compito, ma lo seppe svolgere bene, perché sapeva castigare senza inimicarsi i colpevoli. Il criterio di governo era già stato chiaramente precisato dal suo predecessore che nelle ordinazioni tra l’altro aveva stabilito: «Che facciano osservare tutte le constituzioni stampate in tutte le cose et habbino gli occhi aperti a non fare introdurre abusi e corruttele, et di levar via con ogni diligenza le già introdotte».[71] Il Bini morì nel luogo nuovo di Perugia, ove era stato il primo guardiano, il 29 maggio 1604.

Il cronista Lattanzio da Terni ha lasciato una bella biografia di p. Silvestro d’Assisi, in cui viene rivelato un particolare significativo: «Quando – scrive – lui non era vicario, o vero non haveva li studenti, sempre si esercitava a leger casi di coscientia a sacerdoti semplici, a chierici, laici… Era un gran giurista. Ancora ha fatto una Dechiaratione sopra la Regola molto frutterosa sopra la cosa delle fabriche. Era molto stimulato; era homo piacevole ch’ognuno li poteva parlare e manifestare li suoi bisogni. Faceva frutto nel predicare, ci ingeriva li casi de coscientia nella sua predica, che faceva grande utilità a tutti».[72]

Il commento della Regola che scrisse già prima di essere generale riflette questa formazione teologica e giuridica. È il più esteso di tutti quelli trascritti sul codice assisano, comprendendo oltre 550 pagine, col titolo: Dechiaratione della Regola de’ frati Minori cavata da Sommi Pontefici et diversi Dottori dell’Ordine.

Un’altra copia manoscritta si conserva nell’archivio provinciale dei cappuccini toscani a Firenze-Montughi, trascritta unitamente a quella di Giovanni M. da Tusa nello stesso codice, ma con paginazione autonoma, da f. 1r a 467, col seguente titolo: Dichiaratione della regola de’ | frati Minori, cavata dai Sommi Pontefici, e da | diversi Dottori dell’ | Ordine | per il M.R.P. Fra Silvestro | d’Assisi Capuccino. Il codice toscano è molto tarlato e quasi illeggibile. La scrittura è di una sola mano, sottilissima e chiara, 24 righe, 13 × 9,5 cm. Sul dorso del codice è scritto: Regola | Testamento | P. S. Francesco | M.S. | 1581, segnato n. 47, leg. in pergamena e proveniente, sembra, dalla Biblioteca del convento di Livorno, miscell. 20.[73]

Il confronto fra le due copie, al di là dei contenuti che sembrano perfettamente identici, e quindi copie tra loro dipendenti,[74] offre un piccolo problema di datazione. L’anno 1581 segnato sul codice toscano si riferisce piuttosto al titolo del commento di Giovanni Maria da Tusa; mentre, più preciso e, forse, definitivo è l’anno indicato nel ms. assisano, a conclusione della stessa Dichiaratione, a p. 562, dove si legge: «Compilata in Perugia a’ 7 di Febraio 1586 per il M.R.P. F. Silvestro d’Asisi Cappuccino, nel 3° anno del suo Vicariato. Laus Deo». Non abbiamo notizie piú particolari per precisare il significato di questo «3° anno di vicariato». Non può riferirsi a quando era ministro provinciale, che fu negli anni 1590-95 e allora dovrà alludere a quando era vicario del convento nuovo di Perugia, convento di S. Maria della Pace, costruito a partire dal 1579 e del quale fu il primo guardiano.

Il commento è massiccio e ricco di citazioni di testi e di autori svariati e riflette il metodo scolastico. E insieme verifica perfettamente il giudizio del cronista Lattanzio da Terni per la varietà dei casi che l’autore propone nell’osservanza della Regola e spiegati con dovizia di documentazione. In particolare il caso delle fabbriche, al quale accenna lo stesso cronista, come spiegato in modo molto utile e pratico dal Bini, è trattato nella Dichiaratione al n. 24 del capitolo IV, che dice: «Se i frati tenendo gli operari a lavorare per denari, come sono muratori, lanaroli e sí fatti, et facendo loro le spese, si possa fare con buona conscienzia o no». Silvestro d’Assisi dice che «cotal difficultà non ho trovato che la tocchi alcuno espositore della Regola espressamente». Egli scioglie il caso col buon senso di un uomo pratico, e sebbene dica che l’opinione stretta sia la più sicura, tuttavia la «più larga è la più probabile, più razionabile et più in pratica».[75] E questo è una spia per capire l’uomo benigno e amabile, come è stato giudicato allora dai frati.

4. I primi commenti «cappuccini» editi della Regola

Accanto ai commenti inediti e anonimi troviamo verso la fine del Cinquecento e nei primi anni del Seicento i primi commenti cappuccini stampati. I loro autori sono, in ordine cronologico di edizione, p. Gregorio da Napoli, p. Girolamo da Polizzi e p. Santi Tesauro da Roma.

a) La «Regola unica» di Gregorio da Napoli (doc. 9)

Se prescindiamo dal Breve discorso del Pili, che di per sé non è un vero commento alla regola, eccetto nella casistica della povertà, il primo stampato è l’opera di Gregorio da Napoli, intitolata Regola unica del Serafico S. Francesco con la dichiaratione fatta da diversi Sommi Pontefici, edita a Venezia nel 1589. È un volume offerto al ministro generale Girolamo da Polizzi, come risulta dalla lettera dedicatoria, datata S. Maria della Concezione di Napoli, 1 aprile 1588. In essa manifesta il suo intento che è tutto una dimostrazione d’affetto verso «la religione della unica Regola del serafico nostro padre san Francesco, benché in cinque gradi, uno piú stretto dell’altro, per quanto dal Bollario dell’Estravag. de’ Romani Pontefici si dimostra, cioè, primo, padri conventuali, secondo, padri conventuali dell’Osservanza; terzo, padri francescani dell’Osservanza; quarto, padri Riformati d’essi osservanti; quinto, frati di san Francesco de’ capuccini, e con il sopradetto ordine di grado, per esse Estravag. dimostrasi, passarsi ad strictiorem observantiam et in nullo modo permettersi il contrario transito, per quanto dalla constitut. 69 e 22 D.N.S. Papae Sisto Quinto, et constitut. 70 e 56 della felice ricordazione di Papa Gregorio XIII e constitut. 29 di Papa Paolo III e decima di Papa Iulio III e vigesima di Papa Leone X appare».[76] Già da questa citazione si avverte la massiccia formazione e specializzazione giuridica dell’autore che allora, a Napoli, era abilissimo e ricercato esaminatore degli ecclesiastici.

Egli, però, aveva progettato, inizialmente, un’esposizione della Regola di santa Chiara per le monache cappuccine, ma poi s’avvide che non poteva spiegare santa Chiara senza san Francesco: «Bisognandomi stendere l’una – dice – son forzato stendere l’altra».[77] E così ne risultò un commento, come un dittico, che si rivolge da una parte ai frati e dall’altra alle monache, interpretato e portato avanti insieme, parallelamente. Per questo il titolo è: Regola unica, quasi a dimostrare l’unità del carisma francescano nella molteplicità di espressioni storiche, e questo riguarda anche i «cinque gradi» di osservanza, la cui massima espressione, secondo l’a., sarebbe la riforma cappuccina. Un concetto questo che viene da lui ribadito in una caratteristica pagine del suo Enchiridion (doc. 8).

La caratteristica principale di questo commento è la continua e puntuale riferenza alle «dichiarazioni fatte da santi pontefici, i quali non errano, et massime nella vera interpretazione delle cose che spettano alla salute dell’anima». Egli, rivolgendosi alle monache «Trentatré», ha voluto dar loro «una certa forma d’intendere l’intenzione di detta santa Chiara, secondo si può agguagliare a la vostra et nostra povertà, nel modo che i legisti usano sempre di produrre una decisione fatta in una causa quando vi è simile, o consimile, la determinatione per quelle medesime ragioni produtte nella prima».[78]

Lo stile che usa si rifà al metodo di Giovanni M. da Tusa e anche per questo preferisce il volgare al posto del latino che le suore e i frati semplici non avrebbero potuto leggere. Tuttavia si scusa se è stato «alquanto prolisso nella nostra naturale italiana lingua, lasciando il novo napolitano con la sua orthografia et toscano parlare».[79]

Se vuole favorire i «semplici», prende però di mira anche quei «frati che presumono in scientia», mentre, allegando il cap. Exiit o Exivi, si è accorto che i dotti sono spesso «idioti nella canonica legge» e di queste dichiarazioni papali «han fatto quel conto, come se lo dicesse o determinasse il cuoco o altra privata persona».[80] E allora trova un suo modo di citare: «Volendo rimediare a sì gran errore – dice -, ho mutato il stile ordinario de’ dottori… et introdutto questa nova allegazione, dicendo: Questo dice il sommo pontefice», in modo che il frate «con maggiore devozione e riverenzia sottometta il suo sensuale intelletto alla longa fatica di detta santa Sedia Apostolica».[81]

Non sappiamo come i frati abbiano reagito a questo scritto. Certamente fu letto e studiato e contribuì a solidificare la coscienza del l’Ordine. Ma una curiosità potrebbe rappresentare il volume della Regola unica conservato nel convento di Venezia-Mestre dove, sul primo foglio, si legge scritto a mano: «Benché la Regola del p. Gregorio capuccino non sia proibita né sospesa, nondimeno è bene non leggerla, essendo tale l’intentione de’ nostri superiori. Corretta in alcune littanie. Valdobbiadene, 27 sett. 1635. Fra Fortunato de Vicenza».[82] Il motivo di questa emarginazione non è chiaro. Un fatto è certo: che l’opera di Gregorio da Napoli non viene citata nei successivi commenti e resta una parentesi chiusa e testimonianza «unica» dell’amore del suo autore verso la vita cappuccina. Egli è un buon napoletano e dalla forte corazza giuridica e di citazioni di autorità con cui ricopre il suo commento, sa sbucar fuori qua e là con battute sagaci, gustose, ironiche e anche taglienti, specie verso i dotti e i superiori, quando esagerano nelle loro funzioni. Forse qualche appunto al protettor dell’Ordine troppo invadente? Egli, da parte sua, chiede preghiere perché «insino al punto della mia morte sempre abbia con veri e non finti fatti essequito tutto quello che conviene a vero frate capuccino».[83]

b) L’«Expositio» di Girolamo da Polizzi (doc. 10)

Un altro motivo, più concreto, per cui presto la Regola unica di Gregorio da Napoli restò nell’ombra, deve essere stato, verosimilmente, la fortuna del commento di Girolamo Errente da Polizzi Generosa (1544-1611), che esige una storia particolare.

Appartenente alla provincia di Palermo, p. Girolamo vi era stato provinciale nel 1579 e poi aveva esercitato lo stesso servizio in quella di Messina. Nel capitolo generale del 1584 era stato eletto procuratore dell’Ordine e tre anni dopo diventava generale. Già da 22 anni, come poi scriverà nel 1606 nella Dedica al card. di S. Pietro in Montorio Anselmo Marzati da Monopoli, quindi dal 1584, desiderava «commentarios seu verius interpretationem a plurimorum dubiorum super minoritana nostra Regula resolutiones edere et in lucem, producere». E infatti aveva raccolto le sentenze piú significative dei precedenti espositori della Regola, dottori e teologi, per aprire ai frati «ipsius Regulae vera intelligentia e regularis perfectionis observantia».[84]

Egli, nelle visite ai frati, come scrive il suo biografo teste oculare, faceva «particolare dimostrazione e risentimento negli eccessi delle fabbriche, delle subornazioni, della povertà, delli discorsi inutili e sospettose conversazioni e simili; sopra le quali faceva ferventissimi sermoni che atterrivano e commovevano i cuori di tutti, nel che fu molto singolare et ebbe grazia particolare. Né tenne mai, né si servì in tutta la sua visita di sermonari scritti e ordinari, ma in ogni provincia e in ogni capitolo faceva particolari sermoni secondo li difetti e bisogni che trovava. Eccetto quando trattava di cose pertinenti alla Regola nostra, che allora si serviva dell’esposizione cavata da lui e posta in scritto».[85]

In una lettera, scritta come ministro generale dal convento di S. Bonaventura di Roma a tutti i frati il primo marzo 1593, egli stesso spiegava con piú dettagli l’origine di questo suo commento alla Regola. Diceva che, essendo procuratore a Roma, ebbe l’opportunità di leggere il magnifico commento alla Regola composto dal teologo osservante Antonio da Cordova e tanto gli piacque che pensò di raccoglierne la sostanza in un breve libretto con i punti più rilevanti a propria utilità. Questo compendio venne presto richiesto dai frati che ne fecero copie; ma altri lo incoraggiavano a pubblicarlo «ad simplicium fratrum consolationem». Egli ne restò convinto e intraprese il lavoro, ma lo ridusse «in meliorem formam» con aggiunte e aggiornamenti bibliografici sia del concilio Tridentino che di altri commentari con le diverse esposizioni pontificie. Cosí al suo compendio aggiunse queste diverse «determinationes», e il libretto s’ingrossò, divenne un libro nuovo, superò l’aspetto di riassunto di Antonio di Cordova, si presentò alle stampe quale nuova esposizione della Regola, come l’a. stesso brillantemente scrive: «ut veluti ex macrocosmo microcosmon efficerem; essetque libellus iste meus, non unius tantum Doctoris epilogus, et anacephalaeosis, sed omnium sanctae Regulae nostrae expositorum, brevis et succinta collectio, ac veluti fasciculus ex multis floribus hine inde collectis, compositus. Sed parvus fons crevit in fluvium; opusculum, factum est opus, multis incrementis adauctum, multis doctrinis… tum ex sacris canonibus, tum etiam ex theologis et canonistis refertum. Adeo ut non compendium illius operis dici possit, sed nova Regulae expositio».[86]

I particolari storici sono rivelati dal suo biografo. Durante la visita alla provincia di Genova, che fu nel secondo triennio, dal mese di settembre 1591 fino al principio del 1592, essendo non ben ristabilito da una malattia che lo aveva colpito durante la visita a Milano, e in attesa di un’imbarcazione per andare in Spagna, «si ritirò nel luogo di Sestri di Ponente… dove per guadagnare il tempo, benché convalescente, non avendo speranza di presto passaggio per Spagna, si pose a rivedere, ordinare e compire l’opera che aveva sghizzata e posta in petazze dell’Espositione della Regola nostra, la quale poi stampò, come oggi si legge. Il che fece per sodisfare il desiderio di molti frati, e l’instanza grande che gli facevano, avendo sentito e sentendo da lui alcuni sermoni sopra quella nella visita, e si credevano che lui l’avesse veramente scritta compitamente, e gli la dimandavano molti altri per vederla e altri per scriversela. Stette dunque in detto luogo alcuni mesi, non venendo mai occasione di potere passare in Spagna, in tanto che piacque al Signore dargli quel tempo e quella commodità di potere finire quell’opera in beneficio della Religione (come fini allora), sí bene poi, di quando in quando, l’andava rividendo, limando e ordinando, sinché gli parve di poterla mandare alla stampa, come poi fece in Roma prima e poi in Napoli».[87]

Girolamo da Polizzi fece copiare tutto il manoscritto e rivedere l’ortografia dal p. Arcangelo da Palermo, predicatore e uno dei primi discepoli del p. Trigoso.[88] La fece rivedere tutta ad litteram anche da san Lorenzo da Brindisi. E volle inserirvi anche tre bolle pontificie che limitano e specificano l’autorità del card. Protettore.[89]

L’opera apparve alle stampe nel 1593 a Roma, «apud Guglielmum Facciottum»; «ma perché contenea non so che – scrive Salvatore da Rivolta nella sua Cronaca – che pregiudicava all’autorità del Protettore, fu sospesa da esso et annullata».[90]

Era notoria l’intraprendenza del card. protettore Giulio Antonio Santori negli affari dell’Ordine e molti si lamentavano perché metteva a disagio l’autorità dei superiori generali. Padre Girolamo da Polizzi voleva precisare i limiti di questa «protezione» perché non si trasformasse in «oppressione». E questo deve essere scottato al porporato che riuscì, nell’udienza del 27 novembre 1595 nel concistoro, insieme col card. Cusano protettore dei conventuali, a far condannare con decreto l’opera del Polizzi.

Il Decretum super suppressione libri inscripti Expositio F. Hieronymi a Politio etc. porta la data di stampa: Romae, Apud Impressores Camerales M.D.XCVI (1596] ed è firmato dai due cardinali. In esso non si specifica il senso degli errori dottrinali di questa Expositio. Solo si dice in genere: «qualiter viso et reviso, ac bene et mature considerato dicto libro, tam per nos ipsos, quam per alios theologos et viros doctos dicti Ordinis Minorum, ac etiam facta simul collatione de eiusdem libri erroribus, inutilitate et periculosa doctrina ad relaxationem praedictae regulae ex e notatis et animadversis».[91] Anche nel libro delle Udienze del card. di S. Severina, al 27 novembre 1595 si appunta solo l’argomento: «Far la relatione del libro dell’Espositione della Regola di san Francesco stampato di fra Geronimo Polizzi, già generale de’ Capuccini e diverse censure fatte sopra di esso, e l’ultima del padre Monopoli etc. e di quello ci pare… Sua Santità ordinò che si proibisse, et si supprimesse, si brugiassero li stampati e si raccogliessero li dispersi e distribuiti, et si contentò che di questo da noi se ne facesse decreto. E dicendo io se era bene porlo nell’Indice in 2a classe, disse che già era stampato etc.».[92]

Le conseguenze, però, furono drastiche. Il volume venne distrutto e a quanto pare non esiste più nessun esemplare dell’edizione romana del 1593, per cui non è più possibile verificare direttamente, oltre le tre bolle sopra accennate che Gregorio XIII aveva riconfermato nel 1578, il tono della critica che il Polizzi deve aver fatto all’autoritarismo del card. Protettore.

Tuttavia, fortunatamente, è possibile formulare un’altra ipotesi plausibile. Il testo originale di questa Expositio, quando era ancora una specie di compendio del libro di Antonio da Cordova, doveva essere scritto in italiano, non in latino, proprio per venire incontro ai «semplici frati». Solo in un secondo tempo, quando venne rivisto per prepararlo alla stampa, l’a. lo redasse in latino. Tutte le edizioni dell’Expositio del Polizzi sono latine. È rimasta però, manoscritta, la redazione italiana nel codice assisano, col seguente titolo: Breve, et utile dechiaratione | della Regola, fatta dal m. r. p. f. Hiero- I nimo di Boniza [sic] eletto per Gene- | vale de’ Padri frati Cappuccini nel anno | del Signore 1587 nella Alma città I di Roma.[93] A nostro avviso questo testo e una copia della primissima redazione, quella che l’a. chiamò nella lettera del primo marzo 1593 «breve compendium» dell’Expositio di Antonio di Cordova, o «libellum» od «opusculum». Ed è proprio qui che troviamo chiaramente la critica al card. protettore, che invece è stata abolita nelle edizioni a stampa. Infatti nell’ultima pagina del testo manoscritto, ossia alla p. 1061, leggiamo queste parole che devono aver fatto scattare l’ira del card. Santori:

«L’offizio del Protettore (secondo Ugone, Bartolo, Pisano et la Serena Conscienza, nella q. 107) si è, che sia governatore dell’Ordine, nella promozione dei beni; sia protettore, deffendendo da gl’aversarii; ma sia, poi correttore dei cattivi. Nondimeno il Protettore può essercitare gli predetti atti con le seguenti limitazioni, cioè in quei tre casi espressi e specificati in essa Regola: primo, se la communità dell’Ordine non fosse suggetta in mera obedienza ai piedi della Santa Chiesa, et però si dice: “acciocché essendo noi sempre sudditi et suggetti” et questo contra le divisioni delli scismi; secondo, se l’Ordine non fosse stabile nella fede cattolica, et però si dice: “stabili nella fede cattolica”; e questo contra gl’errori contra la fede nostra. Terzo, poi, se l’Ordine non osservasse communemente la Regula, fondata nell’Evangelio, né meno procurasse di remediarci, et però si dice: “osserviamo la povertà et umiltà”, et questo contra tutte le communi transgressioni dell’Ordine, notabilmente colpevoli, contra la Regola. E in queste cose non ha l’autorità semplicemente, ma quando la communità dell’Ordine, o vero il capitolo generale deviasse nelle cose predette; e ne gl’altri casi non vi si può intramettervi, come dicono l’Esposizione senza tit., Bartolo, Pisano, Ugone e la Serena Conscienza, q. 107. Et questo medesimo l’ha ordinato Gregorio XI e Sisto IV. Ma vi sono alcuni che tengono l’opposito, cioè, che assolutamente e semplicemente è governatore, protettore et correttore in tutti i casi, benché non si debbia intromettere in ogni cosa, ma lasciar questo ai prelati dell’Ordine. Et con queste cose si dà fine alla dechiaratione della Regola nostra. Ad onore et gloria de Iddio. Amen».[94]

Nel capitolo generale del 1593, in cui fu eletto generale p. Silvestro Pappalo da Monteleone, p. Girolamo, dopo sei anni di governo, non era riuscito a visitare le province d’Oltralpe, e per questo era stato rimproverato da Clemente VIII. Ma fu soprattutto l’intervento duro del card. Santori a dargli la maggior penitenza. Egli dovette scontare tre anni di confino a Reggio Calabria e restò privo per dieci anni di voce attiva e passiva.[95] Ed è in questo periodo di esilio che il Santori ebbe buon gioco nel procurare anche la condanna dell’Expositio con tanto di decreto stampato. Quando san Lorenzo da Brindisi divenne generale dell’Ordine, nel maggio del 1602, pochi giorni dopo avvenne la morte del card. di S. Severina e così Girolamo da Polizzi venne riabilitato. Lorenzo da Brindisi desiderava una precisa e completa interpretazione e spiegazione della Regola. E dal momento che l’opera del Polizzi era stata condannata, bisognava pensare ad una nuova esposizione. Incaricò di questo p. Ruffino da Napoli, che per esigenze personali aveva già composto «una molto dotta, spirituale, zelante e chiara esposizione di essa nostra Regola». Costui non fini il lavoro, prima che san Lorenzo concludesse nel 1605 il suo triennio; e rieletto provinciale di Napoli nel 1606, non ebbe piú tempo di perfezionare il testo e morí poco dopo.[96]

Nel frattempo anche Clemente VIII morì (5 marzo 1605) e allora si riuscì a ottenere la ritrattazione della condanna e il permesso per la ristampa, sia pure leggermente corretta, dell’Expositio di Girolamo da Polizzi. In questo si diedero molto da fare il nuovo ministro generale p. Silvestro d’Assisi e il card. Monopoli che suggerí le poche correzioni.[97] Silvestro d’Assisi gli scrisse da Verona il 3 settembre una lettera gratulatoria per aver ottenuto la licenza di stampa dai cardinali della S. Congregazione dell’Indice: «fore enim speramus, ut per eam Religio nostra, quae alioquin, Dei gratia, a Maiorum tramite nihil deflexit, maiora in dies observantiae incrementa sit acceptura». E lo autorizzò a pubblicarla presto con le debite approvazioni. Tra i cardinali riuniti il 26 agosto 1605 nella congregazione generale dell’Indice e che discussero la ristampa dell’Expositio, dopo un’ arringa dell’arciv. di Trani e di p. Giovanni da Rimini, teologo cappuccino, c’erano il card. Baronio, il Bellarmino, il Colonna, il Pamfili, il Camerino, Serafino, Asculano e il Monopolitano.[98]

L’opera usci elegantemente stampata dai torchi di Gian Giacomo Carlini di Napoli nel 1606 col titolo: Expositio | F. Hieronymi | a Politio siculi | Ordinis Fratrum Minorum | Capuccinorum. | Cum dubis excussis in Regulom Seraphici | Patriarchae S. Francisci eiusdem | Ordinis Fundatoris…, Neapoli 1606, e comprende [24] + 844 + [94] pp., 15 cm. Da questa edizione dipendono tutte le altre che in seguito apparvero, come quella di Parigi del 1615 e di Colonia del 1695; e così il citato cronista Salvatore da Rivolta poteva scrivere che questa dichiarazione della regola «si usa in tutta la religione et è molto utile, dotta e fruttuosa, e da tutti lodata».[99]

Accostando ora più da vicino l’opera del Polizzi, si nota che egli sa esprimere e organizzare la sua spiegazione della Regola in modo perfettamente coerente, sintetizzando con rara efficacia e chiarezza, pur senza particolare originalità, le lungue e scolastiche disquisizioni di altri commentatori e specie di Antonio da Cordova, la cui importanza è primaria, come colui che costituisce la linea di transizione tra gli antichi e moderni espositori della Regola di san Francesco.[100]

Egli fa anche discreti rimandi a san Bonaventura, a Ugo di Digne, Olivi ecc. con utilizzazione appropriata di teologi classici o scrittori di ascetica-mistica come il Gerson e frequenti citazioni dalle Decretali e dai commenti del Navarro.

Questa stringatezza di linguaggio alcune volte appare eccessiva a scapito di quella unzione spirituale che spesso sembra caratterizzare il tono e il linguaggio degli altri scrittori cappuccini. E tuttavia è proprio per questa nervosità, poco indulgente al sentimento, per un effetto di chiara divisione e ordinata successione dei temi e argomenti, con le obiezioni e «cum dubiis excussis», come si legge nel titolo, che l’opera del Polizzi ottenne un notevole successo editoriale in Italia e fuori. Un motivo non ultimo di questa maggiore divulgazione è stato senz’altro la scelta consapevole di scrivere in latino, la lingua dei dotti, per la prima volta nell’Ordine, perché tutte le precedenti esposizioni erano state sempre redatte in lingua volgare. Anche questo è un segno caratteristico di una nuova consapevolezza storica e istituzionale dell’Ordine, che si potrebbe cogliere, con le sue luci e ombre, in queste sintetiche parole di Salvatore da Rivolta: «[Il Polizzi] fece molti ordini in scritto e gli mandò per tutte le Provincie, quali furono di poco giovamento, anzi di detrimento alla Religione… Da questo generale furono mandati frati in Fiandra a fondarvi conventi ad instanza d’Alessandro Farnese, duca di Parma. Di ordine suo furono divise l’infrascritte provincie per maggiore pace, quiete e osservanza regolare, cioè: questa di Milano da quella di Brescia…, questa di Lione di Francia, detta di S. Bonaventura, da quella di Marsialia in Provenza detta di S. Lodovico… Era questo generale dottissimo….».[101] Egli, nel 1589, tra l’altro persuaso da Mattia da Salò, aveva fatto nominare vari cooperatori nelle diverse province per la raccolta di memorie da inserirsi nelle Cronache dell’Ordine.[102]

Il suo commento alla Regola restò sempre un punto di riferimento sicuro nellOrdine. Gli espositori cappuccini successivi normalmente lo citano e lo apprezzano. E anche il ministro generale Innocenzo da Caltagirone, per es., nel suo discorso sulla povertà che durò tre ore, lo cita con queste parole: «Navarrus, quem sequuntur nostri expositores Hieronymus a Politio et Santes…»;[103] lo riporta. accanto a p. Santi Tesauro, sul quale ora vogliamo soffermarci.

c) L’«Espositione sopra la Regola» di p. Santi Tesauro da Roma (doc. 11)

Quando p. Santi redasse la sua Esposizione, era ministro generale p. Paolo Angelini da Cesena (1556-1638), dal quale il 25 giugno 1613 ricevette la licenza di stampa. Egli aveva una grande esperienza di governo, essendo allora definitore generale per la terza volta. Dedicando il volume al card. Mont’ Alto (in data: Dal luogo nostro di S. Bonaventura 14 luglio 1614) spiegava che l’obbligo di osservare la Regola l’aveva spinto «a cercare e investigare l’intelligenza di quella. E con l’occasione di qualche governo avuto nella religione, studiando diversi autori, son’ andato cavando e notando alcune cose notabili per communicarle agli altri. E dopo lungo tempo, trovandomi aver fatta una scelta di più cose particolari, mi venne desiderio (esortato anche da molti frati zelanti dell’osservanza) di fare una Sposizione sopra la detta Regola per comune utilità de’ professori di essa, specialmente de’ frati semplici, che perciò l’ho fatta un idioma volgare, e mandarla in stampa».

Egli ritorna, quindi, al sistema tradizionale di scrivere semplicemente in volgare per i semplici. Ormai il metodo ha acquistato caratteristiche comuni. Egli insiste però sul fatto che, come cappuccini, si è rinunciato a tutti i privilegi e dispense e, quindi, «nel compilare quest’opera» – dice «Al Lettore» – non ha avuto «riguardo alcuno a simili dispensazioni», ma «l’ho fatta semplicemente». La diversità con altri autori è tutta qui, «sarà per rispetto di qualche privilegio».

Il volume è prolisso. Ormai l’analisi del Polizzi fa scuola. Esce a Roma nel 1614 dalle stampe di Egidio Spada col titolo: Espositione sopra la Regola del Serafico Padre san Francesco, di F. Santi Thesauro romano predicatore capuccino, nella quale brevemente si dichiara l’intentione di esso Institutore circa l’osservanza, e si risolvono i dubbi concernenti a detta Regola.

In qualche modo p. Santi rifà il disegno di Gregorio da Napoli, nel senso che vede l’opportunità di aggiungere anche una Dichiaratione sopra la regola di S. Chiara, edita a Venezia nel 1621 e dedicata al nuovo ministro generale Clemente da Noto con lettera del 30 novembre 1620. Anche in questo caso l’intento è di proporre un commento «secondo la propria et vera intelligenza conforme all’intentione del glorioso Padre S. Francesco senza privilegi, che in alcun modo la possano distraere dalla pia mente sua e dalla b. Chiara prima pianta».[104]

Questa insistenza sulla rinuncia a qualsiasi privilegio rende il p. Santi un forte difensore e paladino della tradizionale austerità dell’Ordine; e c’è un curioso dibattito dottrinale tra lui e il Verucchino sulla questione del mantello e di due tuniche: An super tunicam et habitum fratribus Minoribus interdicatur usus palli? In pratica si incominciava a mettere in crisi la classica soluzione di Bernardino d’Asti. La questione viene affrontata dal p. Santi e dal Verucchino con una ricca documentazione storico-giuridica ricavata da S. Bonaventura, da Giovanni de Pecham, dalla «Serena Conscientia», dall’Olivi, dai Quattro Maestri, da Ugo da Digne, dalle Declarationes dubiorum super Regulam Fratrum Minorum di Antonio da Cordova ecc.

Il Verucchino, basandosi su un principio agostiniano, per cui il Vangelo non sta semplicemente nel suono o corteccia delle parole, ma nella midolla del senso e nella verità, è più possibilista nel rigore, fino a concedere l’eventualità di portare tre vestimenti, cioè due tuniche col mantello. Santi Tesauro invece, più tradizionalista, legato all’idea di Bernardino d’Asti e al rigore di sole due tuniche, ribatte la posizione del Verucchino che lo tacciava di questionare di lana caprina, e sostiene che la sua sentenza, cioè dell’uso illecito del mantello con due tuniche non cucite, quando non c’è necessità e licenza, è verissima e mitissima: verissima perché più conforme all’intenzione di san Francesco e alla Regola; mitissima, perché è permesso nei casi di necessità e con licenza. Questa posizione, dice p. Santi, è più sicura e più santa, perché è preferibile la dispensa e quindi la licenza, che agire secondo le proprie scelte personali o la propria coscienza senza obbedienza. E si firma: «Ego frater Sanctes Romanus inter omnes fratres minores capucinos minimus et inter minimos novissimus».[105]

5. Ermeneutica «cappuccina» della Regola francescana

Abbiamo tracciato un panorama storico e bibliografico per inquadrare i diversi commenti della Regola scritti da cappuccini nei primi cento anni della loro storia. È opportuno, ora, per concludere, rivedere sinteticamente questi scritti nella loro logica interna e coincidenze di valori spirituali e vitali.

Si possono, infatti, ricavare alcune convergenze metodologiche e critiche. Se questi scritti sono debitori di un metodo esegetico legato alla tradizione dell’Ordine, diventano, in molti punti, significativi di uno stile nuovo di leggere la Regola di san Francesco. Si nota anche una graduale evoluzione di strumenti di analisi e di esegesi, passando dai commenti antichi e classici a quelli moderni e contemporanei Ma soprattutto si vede un consapevole passaggio dal dato, come cosa che si dà dentro una pletora di informazioni, al significato quale realtà per cui ci si decide esistenzialmente e vitalmente. È come un vero atto ermeneutico.[106]

Il dato è la lettera della Regola, che non è mai «innocente», completamente dato, ma qualcosa che resta sempre misteriosa e già qualificata da una precomprensione e da un giudizio. Il significato, invece, è come lo Spirito che precede la lettera perché la individua e la segue rafforzandola.

La storia della lotta per il significato della lettera della Regola e la lotta per la povertà coincide effettivamente, nell’Ordine francescano, con la storia dell’ermeneutica della Regola di san Francesco. Lo sforzo dei cappuccini del Cinquecento di analizzare con severità il senso letterale dei testi, dei capitoli della Regola, era una necessità vitale della loro riforma per giungere al senso globale e «spirituale» di essa, per trovare un’immagine viva e vissuta di san Francesco.

Il dato linguistico, precompreso dottrinalmente secondo le interpretazioni dei santi dottori e commentatori del passato e del presente, veniva riferito alla vita nelle sue scelte fondamentali per giungere ad una decisione esistenziale per il significato e da qui nascevano e si sviluppavano le opzioni di riforma.

In altre parole, i primi cappuccini erano convinti di riscoprire san Francesco genuino se ritrovavano lo Spirito di Cristo che dettò la Regola e lo spirito di Francesco che la tradusse in vita vissuta. Quindi era essenziale un’esperienza integrale cristiana, di fede, di studio, di meditazione, preghiera personale ed ecclesiale, con l’ascesi e la purificazione per far circolare la ricchezza dello Spirito che è il grande ermeneuta.

Essi privilegiarono un’esegesi «spirituale» in tal modo la Regola evangelica francescana divenne in essi fondamento del loro pensare, vivere e organizzarsi. Dicevano che solamente coloro che la osservano la comprendono. Infatti l’approfondimento del senso (spirito) si opera come ripetizione della nuda parola della regola (lettera).

Questo è chiarissimo nella logica de L’amore evangelico, pur nella sua frammentarietà. Qui, a noi pare, si ritrova la massima consapevolezza di questa lettura ed esegesi «spirituale» della Regola. Specificare tutte le sfumature con cui l’anonimo autore interpreta le parole, sarebbe un discorso troppo lungo. Sostanzialmente egli dice che quando si pone in opera un testo, non è più necessaria la lettera e chi si lascia educare dallo Spirito ai piedi della Croce non ha bisogno di esposizioni. Se non si crede che Cristo e Francesco abbiano scritto nella Regola le cose necessarie, allora, «per difetto di operazione», «per umano modo» è avvenuto che più si è dichiarata e spiegata, e meno si è trovata la via della sua osservanza e spirituale intelligenza.

Essendo le parole di Francesco proferite «in spirito profetico», sarebbe impossibile investigare le vie della sua locuzione senza spirituale intelligenza. Questo significa sentire per incendio d’amore lo smisurato dolore del Crocifisso e allora – esclama l’anonimo scrittore «con questo segno sarete veri frati minori e servarete la Regola senza fatiga e non averete bisogno di alcune esposizioni né concessioni né dichiarazioni, ma lo Spirito che vi ama vi guiderà».[107] È la conoscenza per amore, caratteristica di Francesco e assai rimarcata dai cappuccini. Il criterio è di non guardare solo alle parole di Cristo e di san Francesco ma alle opere loro: «Cristo ci ha dato maggior esempio con le opere che con le parole».[108]

Lo stesso, in pratica, dice anche Giovanni da Fano nel suo Dialogo, dipendente in questo da L’amore evangelico. E lo stesso ripete l’altro commento anonimo cappuccino attribuito espressionisticamente a Frate Angelo Tancredi. È la ricerca del «vero senso». Posto il dato della Regola, questo anonimo autore lo illumina con l’esempio di Gesù Cristo e col Vangelo; e siccome è lo stesso Spirito che parlava in san Francesco, immediatamente si sposta nell’insegnamento vitale di Francesco che, «illuminato dallo Spirito Santo, pienamente e perfettissimamente ha dichiarato la pura intelligenza e finale intenzione di Cristo sopra la osservanzia di essa Regola nel Testamento e in alcune ammonizioni ed epistole, fatte a diversi frati e in molti suoi ragionamenti avuti familiarmente con alcuni de’ suoi compagni e familiari, e particolarmente nelle risposte che fece al santo frate Leone, il quale fu familiarissimo suo compagno, e più volte ricercò dal santo padre sapere la pura intelligenzia della Regola, et esso beatissimo con opere e parole benignissimamente ad esso frate Leone et altri suoi compagni manifestò la voluntà di Cristo».[109]

Da qui il motivo per cui sono privilegiati i fatti biografici del santo ricavati specie dalla «Leggenda dei tre Compagni» e da frate Leone.[110] Il segno della perfetta osservanza della Regola dovrà giungere al punto che la «conformità alle vestigie e vita di Jesu Christo e de’ suoi apostoli», per una «perfetta carità» spinga i frati a conformarsi a Cristo in morte, cioè dare la vita per amore.[111]

Se i rimanenti commenti «cappuccini» sembrano più condizionati dalla casistica e dal diritto, è solo per una ricerca seria, a livello degli strumenti esegetici allora imperanti, del «vivo sensu de la lettera e voluntà di S. Francesco», come dice Giovanni M. da Tusa; ma subito precisa che «se volemo dal acto materiale pervenire al formale, è conveniente observare la Regola non solum nel exteriore, ma anco nel interiore».[112]

Silvestro d’Assisi, a sua volta, offre una spiegazione e giustificazione di quel suo sovrabbondare di autorità, scrivendo che «una cosa non si può osservare, né mandar in effetto bene, se quella non s’intende, e la nostra Regola, sicome è perfettissima e altissima, così è di non poca difficultà e oscurità, massimamente a noi che non abbiamo qual lume e spirito ch’avea il nostro serafico padre».[113]

Al di là dei singoli autori, bisogna dire, in una semplificazione unitaria, che il centro della lettura cappuccina della Regola è l’unione di amore con Dio, è l’amor di Dio nello Spirito di Cristo incarnato e crocifisso. Qui si ravviva, si manifesta e si sviluppa la «santa operazione» del Signore che diventa un incessante «pregare Dio con cuore puro». Qui è il centro in cui convergono, come al loro fine, tutte le altre dimensioni.

Il mezzo più forte per realizzare questa convergenza in questo centro o radice è la santa povertà, a un tempo esteriore e interiore, una povertà terribile nelle sue esigenze, materiale e spirituale. È come un cammino progressivo di distacco e di spogliamento, finché non resta più nulla fra sé e Dio. È quindi un cammino mistico.

Il Vangelo è il mezzo di discernimento spirituale nella fraternità, dove vengono calibrati e qualificati i sentimenti, gli affetti e le operazioni. L’obbedienza filiale, umile nella semplicità e gioiosa nella disponibilità al magistero-ministero della Chiesa cattolica romana e nel sommo pontefice, è la garanzia di autenticità di lettura del Vangelo per non adulterarlo e strumentalizzarlo.

La carità fraterna con lo spirito di una madre, carità divina o dello Spirito, che dona la vita per i fratelli, è il frutto più maturo di questa forma di vita evangelica.

Sono rivelatori dello spiritus cappuccino quei testi e quelle riflessioni che ritornano di continuo nello studio della Regola. Ma non sono ripetizioni stucchevoli di una lezione imparata a memoria nel noviziato, ma un ripensamento maturato nel contatto quotidiano della vita coi suoi problemi e le sue difficoltà. La casistica, che a un lettore moderno imbevuto di nuove teologie e di orgogliosa consapevolezza critica appare come un elemento deleterio, è invece in questi commenti un segno di una continua attenzione ai mutamenti delle situazioni concrete. È l’espressione di uno zelo incarnato nei fatti, non consumato nelle parole. L’esteriorità creata dall’interiorità, e tanto più la vita interiore è profonda, tanto più è forte il segno esterno, l’espressione visibile. Non è uno spiritualismo asettico, intellettuale, mentale, ma una concretezza di segni, di misure, di pratiche, di esercizi, di raccordi visibili e vitali, di gesti conseguenti, di strutture corporali e istituzionali, un apparire non per sembrare ciò che non si è, ma come una necessaria effusione di ciò che si è e che si vive nel segreto dell’essere. È infine l’atteggiamento più normale dei semplici e umili di cuore che vogliono assicurarsi di vivere la Regola promessa, nel vero senso con cui san Francesco l’ha dettata, facendo affidamento non al proprio giudizio personale e libero esame, ma appoggiandosi al consiglio di chi è più dotto, più sperimentato e più santo.

I dubia dei capitoli generali devono essere letti non come formalizzazioni di una spietata e tormentata casistica, ma come delicatezza di coscienza dell’Ordine che sa di trovare nel ministro e capitolo generale una risposta convincente e autorevole, essendo vicini alla santa Chiesa romana, colonna e fondamento della verità.

Se l’Ordine si mantenne sostanzialmente zelante della Regola, lo si deve a questa mentalità diffusa tra i frati da questi commenti alla Regola e dalle fervorose predicazioni dei ministri generali, come san Lorenzo da Brindisi che non lasciava passare occasione senza persuadere i frati «che ogni giorno fra se stessi rinovassero la professione già fatta, acciò con tal motivo e stimolo fossero piú ferventi nell’osservare la nostra santa Regola».[114]

  1. Test. 43-46 (FF n. 129-130).
  2. Cf. MHOC III, 5.
  3. «Et sicut in caritatis mandato et sacramento tota lex et prophetae et Evange-lium pendet, ita in Testamento beati Francisci omnis perfectio et intentio regularis et fidelis et spiritualis intelligentia clauditur. Nec est possible quempiam spernentem Testamentum spiritualiter intelligere Regulam vovel fideliter observare» (Hist. 7 trib., 113s).
  4. Cost. 1536, n. 6 (n. 156).
  5. Cf. sopra, Sezione I: Documenti pontifici, doc. 2.
  6. Cost. 1536, n. 5 (n. 155).
  7. Ibid., nell’apparato critico, dove vien riportato il passo delle Cost. 1575.
  8. Ibid.
  9. Particolarmente in Francia e in Belgio-Olanda con Ludovico da Parigi nel 1621, Cipriano da Anversa nel 1625, i cui commenti non ebbero vita facile. Si veda, al riguardo, qualche brano significativo tolto da questi commenti, qui, nella sezione che riguarda l’insediamento e il primo sviluppo dei cappuccini in Francia e in Belgio-Olanda(cf. parte IV).
  10. Cf. F. Elizondo, El «Breve Discorso» de Juan de Fano sobre la pobreza franciscana, in CF 48 (1978) 31-65.
  11. Cf. avanti, nel doc. 2, in corrispondenza alla nota 102 (n. 525).
  12. Su queste raccolte cf. Jean-Xavier Lalo, Les recueils des sources juridiques franciscaines (1502-1535). Description et analyse, Grottaferrata (Roma) 1981.
  13. È un volumetto di 224 ff. Nel Prologo si legge il titolo piú completo del-l’opera: «… Incomincia la expositione de la Regula de’ Frati Minori, novamente compillata et extratta da diverse espositione de’ Summi Pontifici, et Dottori, et reddutta in vulgare per me frate Bartholameo ditto Brendulino della provincia de Santo Antonio, tra li minori minimo, ad utilità et consolatione spirituale de li frati semplici, li quali desiderano sapere le cose necessarie alla sua salute» (ibid., f. 1v).
  14. Cf. Gundisalvus Hispanus, Tractatus de praeceptis Regulae, in Monumenta Or. dinis Minorum, Salmanticae 1506, tr. III, f. 98v-100v; Nicolaus de Auximo, Declaratio super Regulam fratrum Minorum, ibid. tr. III, f. 87v-98r. – Su questi autori e le loro opere cf. F. Elizondo, Doctrinales Regulae franciscanae expositiones usque ad annum 1517, in Laurent. 2 (1961) 480s, 485-87: id., Disquisitio historica de praeceptorum descriptione et enumeratione in regula franciscana, in CE (1967) 271-76.
  15. Id. Regola francescana presso i primi Cappuccini, in IF 53 (1978) 632.
  16. Vedi avanti, dopo la nota 485 del doc. 2 (n. 681).
  17. Si veda alla sezione che riguarda le cronache cappuccine primitive (cf. parte II, sez. IV).
  18. MHOC III, 187.
  19. Cf. MHOC VII, 357; AO 5 (18897 75a (cf. n. 440).
  20. MHOC VII, 359 (cf. n. 442).
  21. Cf. AO 5 (1889) 75b (cf. n. 442).
  22. Su questa Dichiaratione, con i relativi riferimenti bibliografici, cf. piú avanti, nell’introduzione al doc. 4.
  23. МНОС III, 79.
  24. Ibid. 80s.
  25. Ibid. 122 in nota; IV, 134.
  26. Cf. AO 5 (1889) 776.
  27. Ibid. 75b.
  28. Cf. Cost. 1536, n. 17 in nota all’apparato critico (cf. n. 171).
  29. МНОС III, 375.
  30. Questi ff. pergamenacei si trovano alla guardia interna della copertina, all’inizio alla guardia interna della copertina, all’inizio 1200s, 1234s, 1250s, 1411s.
  31. Le tre copie della rarissima stampa sono inserite a p. [1] n. num., a p. 733 e 852v. I quadretti illustranti i temi dei dodici capitoli della regola sono incollati alle pp. 10, 31, 71, 125, 171, 205, 250, 352, 392, 520, 544, 735, 753, 773, 781, 791, 805, 813, 819, 836, 843, 843. Una copia di queste stampe porta la data: Romae, Claudi Ducheti Formis MDLXXXIII [1583], dopo la seguente iscrizione pure incisa: «Regulam Minorum fratrum, beato Francisco divinitus in valle Reatina secundo revelatam, irritam facere ministri Ordinis conabantur, concilio prius inter se inito, tum demum Patrem adeuntes, ac iurgio improbe acclamantes, ut sibi uni duriorem secundam, non tamen caeteris observandam statueret; sed mox, dum Sanctus oraret, vocem coelis elapsam quae sine glosa hanc ad literam servari praeciperet, audierunt; quo territi miraculo, eamdem perscribi, ac promulgari terga vertentes permiserunt». – Su queste e al. tre antiche testimonianze iconografiche cf. alla fine di questa raccolta, in Appendice, lo studio di p. Servus Gieben.
  32. Vedi sopra, alla nota 12.
  33. Sono alcuni motivi che rendono assai probabile la datazione del codice agli ultimi decenni del sec. XVI: si tratta in fatti dei primi commenti «cappuccini», tutti scritti nel sec. XVI.
  34. Pur non avendo fatto una sistematica ricerca, sappiamo che negli elenchi di L. Wadding, Scriptores Ordinis Minorum, Romae 1806, LXIXs (= Index materiarum: Pro Instituto Ordinis Minorum), dove, in ordine alfabetico, vengono riportati tutti gli autori che hanno scritto «In regulam Minorum» e «Defensi Minores», non risulta nulla di analogo a L’amore evangelico.
  35. Per il testo completo della lettera si veda la nota di C. Cargnoni, Una sconosciuta fonte inedita del «Dialogo» emendato di Giovanni Pili da Fano, in Estud. Franc. (1988) 343-358.
  36. P. Vito da Lucca è quello stesso che scrisse una lettera a Paolo V il 26 febbraio 1610 per salvaguardare nell’Ordine le norme della giustizia e i diritti dei sudditi contro processi non debitamente convalidati, come invece aveva stabilito san Lorenzo da Brindisi. Cf. Arturo M. da Carmignano di Brenta, Il generalato di S. Lorenzo da Brindisi (1602-1605), in CF 20 (1959) 220s; per il resto non si hanno al. tre particolari notizie biografiche. Sembra probabile, nel testo della lettera, una confusione tra Ubertino da Casale e A. Clareno.
  37. Non risulta neppure nell’accurata voce di A. Maierú, Buralli, Giovanni (fra Giovanni da Parma), beato, in DBI XV (Roma 1972) 381-86.
  38. Cf. Expositio Regulae Fratrum Minorum, auctore Fr. Angelo Clareno quam nunc primum edidit notisque illustravit P. Livarius Oliger, Ad Claras Aquas (Quaracchi) 1912, 10s, 28 ecc.
  39. I testi completi e commentati, messi in parallelo si possono leggere in C. Cargnoni, Una sconosciuta fonte (sopra, nota 35). Per un riscontro su questa raccolta cf. 1°) n. 462 = n. 506; 2°) nn. 463, 467-468 = nn. 513-515, 533; 3°) n. 477 = п. 591; 40) м. 482 = n. 597; 5°) n. 488 = n. 610.
  40. Cf. C. Cargnoni, Fonti, tendenze e sviluppi della letteratura spirituale cappuccina primitiva, in CF 48 (1978) 349-360.
  41. Da un paziente confronto fatto sul testo del primo Dialogo del 1527 non risulta nessuna traccia di questi brani. Ma anche nel Dialogo emendato si avverte subito la differenza di stile tra la congerie di citazioni di fonti giuridiche e biografiche di san Francesco e questi testi lindi, liberi e autonomi, tutti spirituali, senza nessuna citazione di fonti o di autorità.
  42. Cf. nota 11.
  43. Si veda, più avanti, l’introduzione al doc. 1.
  44. Cf. Spec. perf. 85 (FF n. 1782).
  45. Cf. Expositio (nota 38), 1.
  46. Cf. Melchior a Pobladura, Disquisitio critica de vita et scriptis P. Bernardini a Colpetrazzo, in CF 9 (1939) 51; MHOC II, p. LVs.
  47. Nel cod. cit., p. 1967.
  48. Ibid., 1067-1082.
  49. Ibid., 1069s.
  50. Cf. Messina, APC: Quadragesimale del P[ad]re Tusa, f. 2r.
  51. Cf. MHOC IV, 139.
  52. Cf. Genova, APC: Cronaca E (= 32 Cf. Genova, APC: Cronaca E (= Cronache de’ frati Capuccini della Provincia di Genova raccolte per me frate Agostino da Genova… l’anno 1610). Cf. F. Zaverio, I Cappuccini genovesi. Tesori d’archivio, IV, Genova 1929, 38; il testo è riportato anche piú avanti, alla sez. IV della parte II: Cronache minori.
  53. Cf. Estud. Franc. 26 (1921) 262s; 27 (1922) 44ss.
  54. Cf. F. Zaverio, I Cappuccini genovesi cit., 38.
  55. MHOC VI, 364.
  56. Cf. Melchiorre da Pobladura, Un catalogo inedito dei XV o XVI primi Superiori Generali dei Minori Cappuccini, in CF 8 (1938) 78; Agatangelo da Langasco, De «Modus procedendi» O.F.M. Cap., Romae 1942, Gss.
  57. MHOC IV, 230s.
  58. Ibid. 139.
  59. Ibid. VI, 364.
  60. Cf. Metodio da Nembro, Salvatore da Rivolta e la sua cronaca, Milano 1973, 48. – Questa cronaca è importante per la dovizia di documentazione di prima mano e la sicura conoscenza dei fatti che riguar dano la fondazione dei conventi lombardi.
  61. Cf. [Z. Boverius], Annalium seu sacrarum historiarum Ordinis Minorum S. Francisci qui Capucini nuncupantur tomus secundus, Lugduni 1639, 102s (a. 1584, n. 32).
  62. Negli archivi provinciali o biblioteche cappuccine: ad Ancona (tre copie), Assisi (2), Firenze (1), Genova (1), Milano (1), Venezia-Mestre (1), Livorno (1), Lugano (1), Cagliari (1). Venne tradotta anche in francese, come si nota nel cod. 872 della biblioteca di Douai ( = Cod. D), proveniente dal convento cappuccino della città, fondato nel 1591, scritto da p. Filippo di Cambrai (+ 1640) della provincia belga. Esiste anche una traduzione tedesca nel convento di Zug (ms. Z 119). Cf. AO 12 (1896) 52; 44 (1928) 239; Z. Boverius, Annalium… tomus secundus, 95s (a. 1584, n. 10); Melchior a Pobladura, Fragmenta biographica S. Felicis a Cantalicio et Rayneri a Burgo S. Sepulcri ex codice Duacensi 872 excerpta, in CF 21 (1951) 348; C. Urbanelli, Storia I/2, 269s e nota 174.
  63. Nel titolo, dopo la parola vivere et, seguono due parole cancellate: di quelli nel servizio.
  64. Questo cod. con un altro era già stato menzionato da p. Antonino da Castellammare in: Della venuta dei Cappuccini in Sicilia, Palermo 1937, 64 nota; e dal p. Terenzio di Cento, in IF 10 (1935) 276 nota 15.
  65. Copia proveniente dall’ex convento della Badia di Brescia, autografa di p. Giacomo da Salò, scrittore di p. Mattia Bellintani e ora a Milano, APCL, ms. 386/A, 16 x 11,5 cm., 86 ff., num. recente.
  66. La copia, con la variazione citata, si conserva ad Assisi, APC: è un piccolo codice, 10 x 6,5 cm., con scrittura finissima e molto chiara. La Dichiaratione vi è compresa nei ff. 1r-105v. Il cod. genovese non l’abbiamo visto personalmente, ma abbiamo ricavati i dati dallo schedario dell’Istituto Storico dei Cappuccini a Roma: è un ms. in -24, di ca. 80 pp.
  67. Cf. Metodio da Nembro, Salvatore da Rivolta cit., 77.
  68. Nel grosso cod. assisano è compreso tra p. 736 e p. 850. Si notino le varianti del titolo in altre analoghe copie: Dichiaratione… fatta dal R.do P.re Giovanni Maria da Thusa Generale de’ Capuccini, dichiarata nei Capitoli Prov.li della nostra Congregatione l’anno 1581, 1582, 1583 (copia di Ancona, 10,5 x 14,5 cm., 156 ff.); Dichiaratione.. nel tempo del suo generalato l’anno del Signore 1581, 1582, 1583 (copia di Firenze-Montughi,13 x 9,5 cm., 11 + 126 ff.).
  69. Cf. Melchior a Pobladura, Introductio generalis, in MHOC I, p. LXVII. Non abbiamo visto direttamente questo ms.
  70. Cf. C. Urbanelli, Storia I/3: Documenti (1517-1609), tomo secondo, Ancona 1984, 717.
  71. Cf. AO 5 (1889) 168a. – Si noti lo zelo di questi ministri generali.
  72. Francesco da Vicenza, Cenni biografici scritti dal P. Lattanzio da Terni, in CF 11 (1941) 82; vedi anche: id., Le Carcerelle e i primi Cappuccini in Assisi (1535-1935), ibid. 5 (1935) 254; id., Il convento di S. Antonio abate, dei Minori Cappuccini di Assisi (1595), ibid. 9 (1939) 83s.
  73. A meno che questo cod. sia una terza copia.
  74. Non sembra siano rimaste altre copie di questa Dichiaratione.
  75. Tutta la questione si trova nel cod. assisano alle pp. 162-67.
  76. Gregorio da Napoli, Regola unica, *2v-*3r.
  77. Ibid. 134.
  78. Lettera alle «Trentatré», di fine gennaio 1588, ibid., nelle prime pp. non num.
  79. Ibid.
  80. Ibid., 135.
  81. Ibid., 135s.
  82. Cf. Arturo M. da Carmignano di Brenta, San Lorenzo da Brindisi, I, 380.
  83. Dalla lettera alle cappuccine, dette Trentatré, sopra citata. Su Gregorio da Napoli manca ancora uno studio che potrebbe risultare interessante. Per i primi dati bio-bibliografici cf. Lexicon cap., 700s.
  84. La lettera dedicatoria è datata da Napoli il primo gennaio 1606.
  85. CE. [P. Vincenzo da Polizzi], Il Padre Fra Girolamo da Polizzi della Provincia di Palermo XIV Generale dei Cappuccini. Biografia edita ed annotata dal P. Antonino da Castellammare, Palermo 1933, 48. Il ms. originale, purtroppo monco, si conserva a Bologna, APC, Classe I, Serie V, Busta VII, N. 3a, e porta questo titolo: Relatione del nascimento, vita, conversione nella religione et governo del P. f. Gir[ola]mo da Polizzi Gen[era]le dell’Ord[in]e e di Fr[at]i Minori Capuccini di S. Francesco.
  86. Questa lettera segue la lettera dedicatoria al card. Monopolitano nell’edizione della sua Expositione del 1606.
  87. Cf. Il Padre Fra Girolamo da Polizzi (nota 85), 65-67.
  88. Ibid., 78. Il cod. di questa trascrizione è conservato nella Bibl. Vaticana, Vat. lat. 7757: comprende 464 ff. 20 x 14 cm., e risale al 31 marzo 1593. Porta il seguente titolo: Xhs – Expositio | Fratris Hieronymi Politiensis | Siculi Generalis Ordinis Fratrum | Minorum Capuccinorum | in regulam Seraph.ci Patriarchae S.ti | Francisci eusdem Ordinis | Fundatoris | Cum duplici indice, altero punctorum sive | dubiorum, altero rerum notabilium.
  89. Ma poi, per ottenere la licenza di stampa, le dovrà espungere dal cap. 12 dell’Expositio. Le tre bolle che restringevano i poteri del card. protettore erano quelle di Gregorio XI del 27 maggio 1373, di Sisto IV del 26 gennaio 1472 e di Giulio II del 15 ottobre 1508. E queste erano state confermate da Gregorio XIII il 15 dicembre 1578. Ibid., 76-80 e nota 43.
  90. Metodo da Nembro, Salvatore da Rivolta, 49s.
  91. Cf. Città del Vaticano, ASV, Arm. 4, n. 30, 9-10; altra copia del decreto a stampa in Roma, AGO, A 13.
  92. ASV, Arm. 52, vol. 21, f. 107.
  93. Alle pp. 854-1061 del cod. assisano.
  94. Ibid., 1061. La Dichiarazione del Polizzi, quindi, nella sua prima redazione, finiva con questa presa di posizione contro il card. protettore: ciò che non poteva non impressionare ogni lettore.
  95. Cf. Vincenzo da Polizzi, Relatione ecc., ediz. Antonino da Castellammare (sopra, nota 85), 84; cf. anche Arturo M. da Carmignano di Brenta, Il generalato di S. Lorenzo da Brindisi (1602-1605), in CF 29 (1959) 201.
  96. Ibid., 217s.
  97. Cf. BC III, 173s; l’originale di queste correzioni, firmate dal card. Monopolitano, in Roma, AGO, A 13.
  98. Cf. Il Padre Fra Girolamo (nota 85), 104s e nota 57, per notizie biografiche sui cardinali qui citati.
  99. Metodio da Nembro, Salvatore da Rivolta, 50.
  100. Cf. F. Elizondo, Disquisitio historica.., in CF 37 (1967) 278 e 280; vedi anche: Lamela Alfonso, Aportación biobiblio-gráfica entomo a Fray Antonio de Córdoba ofm [obs.] (1485-1578), in Liceo Franc. 6 (1953) 179-207.
  101. Cf. nota 99.
  102. Cf. Melchior a Pobladura, De cooperatoribus in compositione Annalium Ordinis Fratrum Minorum Capuccinorum, in CF 26 (1956) 18.
  103. Melchior a Pobladura, Concio P. Innocenti a Caltagirone de seraphica paupertate, in CF 10 (1940) 200.
  104. Cosí nella introduzione «A’ Lettori», non num.
  105. Roma, AGO, EA: Miscell. circa Regulam.- Molti altri scritti sulla Regola risultano in questo periodo, ma sarebbero da verificarsi nella loro consistenza. Per es.: Arcangelo da Brescia (+ 1620), Adnotationes inregulam fratrum Minorum, Brixiae 1616; Doroteo Bétera da Brescia (+ 1624), Esposizione della regola minoritana (varie edizioni): cf. Biblioteca dei Frati Minori Cappuccini di Lombardia (1535-1900), a cura di p. Ilarino da Milano, Firenze 1937, n. 410 e 528; pure vari mss. di Bartolomeo Vecchi da Bologna († 1628) che si conservano a Bologna, APG, Classe 6 – Serie 1: Busta 1, N. 1-2.
  106. L’importanza che va acquistando oggi l’ermeneutica, per influsso delle scienze bibliche, sembra molto grande e la letteratura al riguardo è in espansione. Per un primo approccio cf. R. Marlé, Le problèmethéologique de L’herméneutique, Paris 1968; per i ricchi suggerimenti bibliografici e di orizzonti cf. Incontro con la Bibbia. Leggere-pregare-annunciare, a cura di G. Zerini, Roma, 1978; vedi inoltre I. de La Potterie, La lettura della Sacra Scrittura «nello Spirito»: il modo patristico di leggere la Bibbia è possibile oggi?, in La Civ. Catt. 137/III (1986) 209-223.
  107. Cf. doc. 1, dopo la nota 113 (n. 489).
  108. Ibid., in corrispondenza alla nota 39 (n. 469); si veda anche il passo corrispondente alla nota 15 (n. 464).
  109. Cf. nel cod. assisano, p. 1069.
  110. Sono frequenti le formule: «Narrano i tre Compagni», «si narra nella leggenda dei tre Compagni», «per questo dicono i tre Compagni» ecc. e l’altra: «frate Leone scrive», «onde narra frate Leone», «come dice il beato Leone», ecc. Cf. cod. assisano, pp. 1072, 1079, 1086, 1088, 1089, 1097, 1112s, 112a ecc.
  111. Ibid. 1185.
  112. Cf. il titolo stesso autografo del commento di P. Tusa (sopra, in corrispondenza alla nota 64).
  113. Cf. nel cod, assisano cit., p. 9.
  114. Cf. Brundusina Beatificationis et Ca-nonizationis ven. Servi Dei P. Laurenti a Brundusio.. positio, Romae 1756, 256.