PARTE SECONDA
STORIA E CRONACA
SEZIONE PRIMA
DOCUMENTI E TESTIMONIANZE ESTRANEE ALL’ORDINE
(1526-1632)
III
TESTIMONIANZE VARIE SULLE ORIGINI E PRIMO SVILUPPO DELL’ORDINE
(1526 – 1594)
INTRODUZIONE
TESTI E NOTE
a cura di
CONSTANZO CARGNONI
I FRATI CAPPUCCINI. Documenti e Testimonianze del Primo Secolo. A cura di COSTANZO CARGNONI. Roma 1982, II, 287-294.
INTRODUZIONE
Per interpretare adeguatamente il sorgere e lo svilupparsi della riforma cappuccina non possiamo trascurare un’altra serie di documenti, che potrebbero senz’altro aumentare con la ricerca, attraverso i quali è possibile mettere a fuoco il passaggio dalle origini difficoltose e polemiche a un assestamento di piú pacifica espansione.
I primi documenti risalgono ai primi vent’anni circa della riforma. Si presenta innanzitutto l’episodio drammatico della fuga dei due fratelli Tenaglia presso i camaldolesi di Monte Corona, testimoniata dall’importante lettera di Paolo Giustiniani dell’11 aprile 1526 (doc. 35) e dalle delibere del capitolo dei camaldolesi di Cupramontana del 24 e 30 aprile dello stesso anno (doc. 36).
La «tentazione» nei fratelli Tenaglia di concludere per sempre presso gli eremiti di Paolo Giustiniani la loro avventura di riforma dell’Ordine francescano, durò solo un mese e mezzo. I due dovettero presto riprendere il loro vagabondaggio. Ed è qui che interviene la protezione della duchessa di Camerino, Caterina Cybo, nipote di papa Clemente VII, e sappiamo che questo fatto provvidenziale risolverà definitivamente il problema della sussistenza della riforma, giungendo ad ottenere dal papa la bolla di approvazione Religionis zelus del 3 luglio 1528.[1]
Con la Cybo inizia cosí quel caratteristico intervento risolutivo di donne energiche e influenti in difesa della riforma cappuccina, per cui i primi cronisti dell’Ordine e la storiografia tradizionale hanno potuto parlare di «madri amorevolissime della nostra congregazione». Di essa possediamo ancora e riportiamo in questa raccolta due letterine a favore dei cappuccini, scritte poco dopo l’elezione di Paolo III al card. E. Gonzaga, insieme ad una raccomandazione del suo genero Guidobaldo della Rovere, in data 29 ottobre e 19 novembre 1534 (doc. 39,1-3) e una supplica a Clemente VII per ottenere ai fratelli Tenaglia un romitorio (doc. 40).
Il card. Gonzaga si trovava a Roma, essendo da poco concluso il conclave di Paolo III. Egli rispose facendo notare le difficoltà che si frapponevano in questa impresa di difendere i suoi «fratini», come maternamente chiamava la Cybo i cappuccini. Ma la duchessa replicò con immediatezza: ogni buon cristiano dovrebbe difendere questi frati «per la loro vita e buoni esempli»; e intanto, diplomaticamente, suggeriva di rabbonire il card. Quiñones per mezzo del card. Grimaldi vescovo di Bari.
Le raccomandazioni, antico costume degli italiani, in questa circostanza sembrano ben usate e proprio sull’onda favorevole della protezione che viene cosí a instaurarsi per i cappuccini da parte di C. Cybo, la quale ispirerà V. Colonna e, per il matrimonio della figlia, anche da parte del ducato di Urbino, un’altra donna si appresta ad aiutare i cappuccini nella loro prima espansione: è la duchessa di Urbino Eleonora Gonzaga, senz’altro spinta dalla Cybo e da V. Colonna che le scriverà piú tardi una lettera,[2] e per l’intraprendenza di Ludovico Tenaglia che allora manteneva unite le file della riforma e inviava alcuni frati a incrementarla in Italia con nuove fondazioni.
La duchessa Gonzaga raccomandò i cappuccini presso le autorità venete con lettera del 24 aprile 1535, tramite l’inviato del duca di Urbino a Venezia, Gian Giacomo Leonardi (doc. 41), argomentando che già si erano stanziati in molte altre città e ripetendo gli elogi che ne faceva la Cybo.
In effetti, quando si radunerà il primo grande capitolo generale a Roma nel mese di novembre dello stesso anno 1535, con una nuova sessione in settembre dell’anno successivo, erano già formate ben nove province in Italia. Di questa prima espansione della riforma, che ha posto i fondamenti della presenza dell’Ordine in Italia, abbiamo riportato alcuni tenui, ma significativi documenti, a guisa di piccoli scelti frammenti, come esemplificazione. Essi riguardano l’arrivo dei cappuccini a Montepulciano nel 1532 con una lettera di raccomandazione e di protezione da parte del card. Del Monte al «Capitolo» di Montepulciano, in data 11 giugno (doc. 37). Questi primi cappuccini si stanziano nel romitorio di S. Maria Maddalena, già dei conventuali riformati, con la fama di essere, «sopra tutti [gli] altri», frati «di vita eremitica». A questo romitorio, che è anche il primo punto d’appoggio della riforma cappuccina in Toscana, si riferisce una magnifica testimonianza di Francesco Strada, un giovane gesuita, uno dei primi compagni di Ignazio di Loyola, che, in una lettera del 1539, descrive una giornata trascorsa in quella solitudine con numerosa folla devota intenta ad ascoltare una fervente e frequente predicazione penitenziale dei cappuccini, dopo una commovente processione di bambini «flagellanti», con mirabili effetti di rinnovamento dei costumi
cristiani (doc. 43).
C’è poi un «ricordo molto antico» della venuta dei cappuccini ad Arezzo, risalente al 1535, spulciato dalle raccolte documentarie di p. Filippo Bernardi da Firenze (doc. 42,1). Ha ancora il sapore delle primitive effimere abitazioni dei cappuccini, chiesette «poverelle e abbandonate», e dà il senso della «disperata vita» dei pionieri della riforma. Non così, invece, quarant’anni dopo, in una lettera di raccomandazione dei Rettori di una Confraternita ai Priori della Comunità di Arezzo (doc. 42,2), dove la vita cappuccina viene lodata come «santa, cattolica e cristiana», e molto utile alla Chiesa per l’attività apostolica, ma utile anche «al mondo nelle cose temporali», perché… i cappuccini non posseggono niente.
Potremmo qui aggiungere anche una preziosa testimonianza di Vincenzo Lori a Giuseppe Zarlino (doc. 49), che, pur risalendo all’11 agosto 1582, si riferisce, però, agli anni 1526-1528, il periodo meno documentato della storia cappuccina, quando la riforma non aveva ancora organizzato le sue file e precisate le sue finalità. È una testimonianza di alcuni vecchi contadini della campagna di Cerreto d’Esi che ricordavano come, oltre cinquant’anni prima, fr. Matteo da Bascio e fr. Paolo da Chioggia si fossero per lungo tempo appoggiati alla solitaria «chiesiuola… come fanno gli animali» e la gente portava loro da mangiare e da bere. Matteo però «era piú vagabondo», mentre Paolo piú stabile e nella predicazione piú dotto. E c’era un certo via vai di altri frati «de piú bande». E proprio qui nella romita chiesetta di S. Martino avrebbe fatto la vestizione «cappuccina» anche Giuseppe da Collamato. Questo splendido ricordo di contadini toglie un po’ di velo sulla vita scombinata, difficile, randagia dei primi cappuccini, quando la riforma era come uno strumento in fase di accordamento.
La storia dice che la riforma cappuccina fu travolgente nel suo sviluppo e richiamò subito numerose vocazioni. Una spia che fa intuire quanta forza spirituale e insospettata attrattiva avesse sui giovani la radicalità evangelica di questo francescanesimo rinnovato l’abbiamo trovata in alcune curiose lettere di Antonio Minturno Sebastiani, un prelato e umanista, scritte da Messina nel 1534, nelle quali si lamenta perché un suo carissimo amico, Giambattista Bacchini da Modena, convinto dalla fervente predicazione di Ludovico Cumi da Reggio Calabria, uno degli iniziatori della riforma cappuccina calabrese, abbandonò improvvisamente tutto e si fece frate. È una testimonianza assai preziosa perché rivela il pensiero dei dotti e letterati a riguardo dei cappuccini nel periodo in cui essi stavano trovando un loro assestamento spirituale e comunitario. Nello stesso tempo essa fa capire la vivacità spirituale dei pionieri della riforma in Calabria (doc. 38, 1-3).
Un ultimo caratteristico documento riguarda un particolare della presenza dei cappuccini a Bergamo, legato alla testimonianza di un certo don Domenico, un prete bolognese ospite di passaggio presso i frati (doc. 44). I cappuccini si erano insediati a Bergamo, fuori città ai primi di maggio del 1535 in una «casuccia disabitata sui prati della Morla, all’ombra dell’edicola votiva di S. Alessandro».[3] Un anno piú tardi, con l’aiuto del Consorzio di S. Alessandro, essi potevano abitare in un conventino a solo pian terreno, secondo il «piccolo modello» cappuccino, fatto costruire per loro. Stavano ancora in questo povero tugurio, quando avvenne l’apostasia del loro famoso vicario generale Bernardino Ochino e questo evento «formò intorno ai cappuccini un’atmosfera di sfiducia e di ostilità». In questo contesto va letta la testimonianza raccolta in un interrogatorio processuale dell’Inquisizione di Bergamo, risalente agli ultimi di dicembre del 1543. Il giovane prete bolognese proveniva da Ginevra, centro del calvinismo, e subito era stato sospettato come eretico. Che poi avesse trovato ospitalità presso la povera abitazione dei cappuccini, mentre in città c’erano tanti altri conventi piú ricchi e comodi, faceva pensare a coordinate di un segreto piano e rapporto ereticale. Il sospetto delle autorità religiose serví invece a esaltare lo spirito di ospitalità e di accoglienza dei poveri cappuccini.
Con questo documento processuale avvertiamo che qualcosa è cambiato nella politica ecclesiastica. Erano crollate le speranze dell’evangelismo italiano con le sue mediazioni, incertezze e ambiguità, dopo la fuga di Bernardino Ochino. A Roma aveva preso sempre piú consistenza la posizione intransigente del card. Carafa, ossia del futuro papa Paolo IV. Il 21 luglio 1542 era stata emanata la bolla che istituiva l’Inquisizione romana. E proprio mentre il pretino bolognese veniva processato a Bergamo, a Verona moriva G.M. Giberti. Nel giro di pochi anni la situazione andò radicalmente cambiando. E un momento di cesura, di trasformazione che approderà al concilio di Trento apertosi il 13 dicembre 1545.
La giovanissima famiglia francescana dei cappuccini aveva atteso con ansia questo evento. Infatti l’abolizione dell’Ordine era il parere della maggioranza dei cardinali e lo scopo degli avversari ringalluzziti; mentre il popolo, risentito e mordace, aveva bollato senz’altro i cappuccini col nome di eretici. L’informazione del nunzio mons. Fabio Mignanelli riportava una impressione del momento: «Si pensi presto a quel rimedio che si può e vuol fare alla congregazione de’ capuccini, de quali ogni giorno si sente che gittano l’abito e seguono il mastro loro».[4] Furono mesi di sgomento. I frati, bloccati nel loro espansionismo, impediti di esercitare il ministero della predicazione, inquisiti sulla dottrina, ricorsero soprattutto ai digiuni, alle penitenze, all’orazione. La fama di Ochino era diventata la loro vergogna. Ma la santità della loro vita e l’oculatezza del vicario generale Francesco da Jesi, che fece sottoscrivere a tutti i predicatori dell’Ordine e spedire a Roma una professione di fede sulla dottrina allora piú calda del dogma cattolico, valsero a scongiurare il dramma. Bernardino d’Asti nel primo tempo del concilio tridentino fece comparire fra le porpore e le infule dei prelati e le divise dei vari Ordini religiosi l’abito cappuccino di penitenza. E l’impressione che diede con la sua testimonianza di povertà e semplicità evangelica deve aver senz’altro giocato un ruolo importante nel creare simpatia verso la giovane riforma francescana. Scrive Paolo da Foligno che «egli compariva scalzo e rappezzato, con un fiaschetto a mendicare cotidianamente un poco di pane e di vino e talora con un pignattino per le cucine di quelle corti per un poco di minestra, accompagnando quella et le altre sue azzioni con una temperie ed unione mirabile di gravità e semplicità suprema».[5]
Nel terzo periodo del concilio (18 gennaio 1562 – 4 dicembre
1563) il gruppo dei teologi cappuccini era abbastanza rilevante: c’erano sette religiosi con a capo il vicario generale Tommaso da Città di Castello. Quando il 20 novembre 1563 venne presentato ai padri del concilio l’abbozzo del Decretum de reformatione regularium, da disputarsi in congregazione generale, i cappuccini ebbero di che temere. Vi si trattava, tra l’altro, nel can. 3, la questione dell’uniformità dell’abito religioso: «Quod in singulis Ordinibus aequalitas in vestitu serventur». Allora, addio tonaca povera «irsuta e salvatica», con cappuccio aguzzo, segno necessario di vita austera e punto importante d’imitazione di san Francesco! Ma era piú paurosa una seconda prospettiva segnata al can. 4 dello stesso abbozzo di decreto, che aboliva anche per gli Ordini Mendicanti la povertà in comune, ad eccezione degli osservanti. I cappuccini accomunati con gli altri Mendicanti, avrebbero perso il loro motivo di esistere; e poteva anche essere una tattica per farli rientrare nella famiglia degli osservanti. A questo punto il vicario generale dei cappuccini, a nome di tutto l’Ordine, protestò davanti ai padri conciliari, di voler osservare le Regola e le intenzioni di san Francesco, col rinunciare a qualsiasi possesso di beni mobili e immobili.
Nelle discussioni del decreto, nei giorni 23-27 novembre, si diede spicco ai cappuccini, difendendo la causa della loro vita povera. Essi avevano saputo creare un’atmosfera di simpatia nella loro battaglia per la povertà. Molti vescovi intervennero a raccomandare di far un’eccezione per i cappuccini nella questione dell’abito e del loro genere di vita (doc. 45,1). Fu cosí che quando, il 3 dicembre 1563, venne promulgato, nella 5ª e ultima sessione del concilio il Decretum de regularibus et monialibus, al cap. 3, circa le possessioni, i cappuccini vennero menzionati prima degli osservanti, come se fossero passati al primo posto nel privilegio della povertà assoluta (doc. 45,2); mentre il progettato can. 3 riguardante l’uniformità dell’abito scomparve del tutto. Fu questa, dopo la bolla Religionis zelus del 1528, la definitiva approvazione ecclesiale dei cappuccini e la grande vittoria del loro ideale. Se abbiamo insistito su questo momento forte della storia dell’Ordine è per la sua importanza gravida di conseguenze.
Da quel momento la riforma cappuccina apparve nella Chiesa come segno dei tempi tridentini in cui convergevano le approvazioni ecclesiastiche, nobiliari, comunali e popolari.
Dopo il concilio di Trento l’espansione dell’Ordine è irresistibile e presto valica le Alpi e dilaga in Europa. Poniamo a questo punto alcune testimonianze «post-conciliari» che, a loro modo, caratterizzano una immagine felice e dinamica dell’Ordine nel secondo Cinquecento. Ecco il vivace apostolato dei cappuccini a Candia, raccontato dal vescovo Gaspare Viviani al card. della Rovere, il 26 luglio 1568 (doc. 46); oppure il ricordo devoto e ammirato di Matteo da Bascio e di Francesco Tittelmans nella testimonianza di uno dei primi seguaci di san Filippo Neri, mons. Gian Francesco Bordini, risalente al 1573 (doc. 47). È curioso anche l’attaccamento che la città di Cremona dimostra verso i cappuccini milanesi che vi si erano insediati nel 1566, riesumando in questo un campanilismo di antica data. Questa notizia si coglie in una lettera del vescovo di Cremona Nicolò Sfondrati al card. Giulio della Rovere, in data 7 aprile 1573 (doc. 48).
Il concilio di Trento nella sessione XXIV del novembre 1563 aveva prescritto ai vescovi l’obbligo di visitare personalmente le parrocchie della propria diocesi. La visita pastorale, adattata alle esigenze dei tempi, divenne uno strumento privilegiato per la riforma della Chiesa. I conventi dei religiosi ne erano esenti, ma certe volte alcuni vescovi, in forza di una particolare delega apostolica, venivano anche a dare un’occhiata alle chiese dei regolari. Abbiamo cosí riportato un bellissimo frammento di una di queste sbirciatine fatta I’11 dicembre 1582 da mons. Angelo Peruzzi nella chiesetta dell’antico convento di Pistoia (doc. 50): è una vera fotografia delle piccole, ma linde chiesette dei primi cappuccini con le caratteristiche povere suppellettili liturgiche.
Da Pistoia facciamo una scorsa in Corsica dove i cappuccini incominciarono a penetrare nel 1540. Uno storico locale, l’arcidiacono A. Filippini, verso la fine del Cinquecento, scrisse una Historia dell’isola e accennò anche alla presenza dei cappuccini in una breve pagina ch’esalta la popolarità e validità della loro predicazione (doc. 51).
Concludiamo questa raccolta con il primo ricordo biografico a stampa di san Felice da Cantalice († 1587) che rappresenta il primo frutto piú maturo di santità cappuccina dopo il concilio di Trento (doc. 52) e la sintesi piú armoniosa e piú esemplare dell’ideale cappuccino.
